Una somma di piccole cose

07.04.2020

Cosa raccontare di questi giorni? Che il tempo è fermo, non scorre né lento né veloce. Che le piante sono immobili e i venti si sono stancati di spirare forte. Ora non c'è più nessun volto colpito dal vento e questo, indispettito, allora resta fermo, cedendo il posto al bel tempo. Guardo fuori dalla finestra: il terrazzo è pieno di vasi, lascia sperare una nuova vita. Sento i rumori abitare quello spazio e mi accorgo che, forse, alcuni di loro li conosco ormai a memoria: il portone che sbatte, la voce della vicina che chiacchiera, le macchine che grattano l'asfalto e il rumore del clacson di mio padre. Fuori una primavera che non potremo vivere e questa mi sembra la crudeltà maggiore alla quale sottopongo il mio cuore. So bene, dentro di me, di aver bisogno di tutto quel sole. Ma questo - mi dico abbastanza convinta - non toccherà il mio cuore per un po', anche quando tutto questo avrà cessato di essere. Il mio pensiero si rivolge a terre lontane che non ho mai visitato e all'improvviso tutta la mia realtà si inonda di volti e di storie che i miei amici mi hanno cucito addosso.  Sul tavolo in terrazzo un libro che riporta alla mia mente dei versi di una poetessa: "perdonatemi, guerre lontane, se porto i fiori a casa", e che rimbombano forte nella testa, come se volessero uscire fuori. Se porto i fiori a casa, ripeto con un modo labiale; sento l'inconsistenza di questa vita, l'insufficienza di questo presente che porta i segni di una storia piena di ferite che non avranno né tempo né spazio per rimarginarsi, sento che lì non mi basterà più portare dei fiori a casa e rivolgere pensieri lunghissimi a quelle terre che tanto amo senza averle conosciute. Ne parlo con un'amica che giorni prima mi ha ricordato questi versi della Szymborska. Versi che avevo letto quando le mie guerre non coprivano questi pensieri e la precarietà della vita non mi era così dietro le spalle; quando pensare alle guerre era meno spaventoso che pensare a tutta questa situazione. Perché questa è certa, questa è inevitabile e questa è già arrivata. Ascolto le sue parole, che ricoprono la distanza fra me e una Bologna che ora penso irraggiungibile, e capisco che abbiamo bisogno di cure, che tutti i cuori in questo momento sono affollati dalle persone che vorremmo accanto. Sento la sua solitudine stingersi alla mia e per un attimo penso di esistere, perché sento la mia tristezza abbandonarmi e l'anima reagire per portare riparo ad un cuore solo. Raccolgo quelle poche speranze accumulate nei giorni e cerco di dare coraggio; coraggio che, so già ( e lo sa anche lei), trova la sua ragion d'essere solo per gli amici. Faccio un bagno caldo, ascolto un album dei Fleet Foxes e rifletto su questo senso di vuoto che ho addosso da una manciata di settimane. Il dubbio più grande è quello di aver sbagliato ogni cosa, di aver pensato di avere abbastanza tempo a disposizione per poter rimandare le cose. Tempo scontato che ho creduto un'infinità, /Mi perdonino i morti se ardono appena nella mia memoria / Chiedo scusa al tempo per tutto il mondo che mi sfugge a ogni istante, continua la poesia. Nella testa il gelido pensiero di quelle vite che stanno sfiorendo con i fiori di questa primavera, trascinati via da questo leggero Garbino che circonda la mia città sul mare e fa volare via i pensieri, anche quelli che vorrei annodare al petto. Chiedo anch'io scusa al tempo, mentre il volto si riga con delle tristezze che faticano ad uscire fuori e che portano il peso di giorni di distanza e di silenzio, di domande senza alcuna risposta. Chiedo scusa al tempo perché ho pensato di averne troppo. In un attimo il pensiero che la vita sia materia così viva nelle mani del tempo, mi terrorizza: penso a questo eterno presente, a questo oggi continuo e mi sforzo di ricordare in che giorno della settimana siamo senza riuscirci. Un amico lontano mi dice che ora abbiamo qualcosa in comune con i nostri nonni, con i nostri genitori: ora stiamo vivendo un momento storico che ci accomuna e ci può far dire di aver condiviso qualcosa con qualcun altro. Ho qualcosa in comune con tuo nonno - mi dice - e tu hai qualcosa in comune con i miei genitori. Sorrido, perché mi sembra che una delle ossessioni dell'uomo sia questo volersi riconoscere in qualcosa ad ogni costo, come se l'intrecciarsi delle radici degli alberi in una foresta, possa farci sentire in qualche modo d'appartenere. Ma a che cosa serve questa sofferenza comune? Perché il trovare speranza in qualcosa che l'annienta? Avrei preferito continuare a raccogliere i frutti di quell'albero senza pretendere di legarlo a me e sentirmi parte della sua storia. Così, mentre realizzo che - sì, è vero - ora io e i miei nonni abbiamo qualcosa in comune, mi ricordo di quanto ascoltassi affascinata i racconti di guerra dei miei nonni, di quanto una bomba scampata per caso e le linguacce fatte ai Tedeschi, accendessero in me una fiamma di vita, di ribellione, di voglia di sapere. Penso ad una radio accesa in giardino e ai racconti del dopoguerra. A quella volta in cui mio nonno mi ha detto del padre ritornato e del nonno graziato e alla sua sottile ironia nel sottolineare che sì, la guerra è brutta, ma era una gran festa quando qualcuno tornava a casa. E forse valeva la pena non perdere la speranza proprio per questo. Penso alla stessa radio chiusa in casa in questi giorni, alla paura di mio nonno - sempre più debole - nel suo letto già alle 18. Ai suoi sogni sulla guerra (perché la passi, la vivi, anche da bambino, ma i ricordi restano vivi e spesso te li ritrovi nei sogni e lì non accetti di poter morire, lì salvi tutti e te li porti a casa. Anche chi è già morto - mi diceva sempre) e mi sento male per tutte le volte che ho sentito il bisogno di rivivere in questi racconti, per ricordarmi di essere uomo sulla terra e di sapere da che parte sarei stata. Di sapere che avrei lottato per la libertà e che sarei stata estranea alla mia famiglia in questo, benché ami così tanto quei racconti. Ma forse non sappiamo realmente che cosa significhi sacrificarsi fino a quando lo proviamo sulla nostra pelle. Forse non sappiamo chi siamo fino a quando viviamo queste situazioni. La poesia continua, e io continuo a leggerla, pensando finalmente che ogni verso ha un suo tempo, un suo momento per essere letto: Chiedo scusa alle grandi domande per le piccole risposte. Ora che il mondo è impazzito e niente dipende da noi, e non v'è nessuna ideologia a scaldarci il cuore, accantono la fame di vita e comincio a sentire di avere ben poche certezze. Non conto più le volte in cui questo senso di inquietudine mi ha abitata in questi giorni, in cui il legame con quello che era la nostra vecchia vita, non è che rievocato nel saluto del vicino, nelle voci delle persone che ci sono lontane, nella vecchia disposizione della stanza. Rievocazione, ripetitività che ora non vorremmo abbandonare mai. Ripetitività dalla quale sono scappata. Ma mentre conto le settimane a ritmo di Robinson, mi rendo conto che niente di quello che è stato sarà più. Bologna non sarà più Bologna, e i miei amici non saranno più loro, né l'azzurro limpido del cielo sarà lo stesso. La mia famiglia sarà cambiata e io non potrò impedirlo; i nostri cuori modellati su grandi interrogativi. Saremo tutti scossi da un terremoto che lascerà in piedi solo le cose forti. Respiro, perché sto dando piccole risposte alle mie grandi domande. Verità, non prestarmi troppa attenzione/ Serietà, sii magnanima con me. /Sopporta, mistero dell'esistenza, se tiro via fili dal tuo strascico, continua la poetessa. E mi accorgo dello spazio temporale che ci divide. Eppure continuo a tirare fili, uno dopo l'altro, ne faccio un gomitolo che alla fine di tutto questo butterò fuori dalla finestra, perché forse avremo imparato le cose importanti e saremo capaci di lasciare la presa. Pochi giorni fa, mia nonna dice improvvisamente "tu fa come me, immagina di essere in un prato". Resto in attesa per qualche secondo. I miracoli più grandi di questo eterno presente, sono questi: il comprendere che alcune persone sono capaci di capirci anche se così distanti. Sono capaci di prendere questo divagare e tradurlo in calore. Voler bene. Attacco il telefono consapevole che questa è certamente la cosa più importante che sto imparando. Chiudo gli occhi e passeggio sul Rodano, mi scopro per la prima volta diversa e affido i miei dubbi a nuove anime; sono ferma a parlare nell'atrio di casa e mi vengono affidati dubbi che scavano i miei; sono seduta in Place des Carmes con un pain au chocolat in mano ad aspettare, mentre il Maestrale bussa forte ad una finestra che conosco bene e da lì si affaccia qualcuno che mi alleggerisce i pensieri; sono in pullman verso Pont du Gard e parlo un'altra lingua e sento la pace nel cuore di chi si sente sé stesso; sono seduta in biblioteca con i miei amici di viaggio e li guardo uno ad uno, per non dimenticarmeli mai; sono al cinema e per la prima volta mi sento legata a doppio filo con l'Algeria; all'improvviso sono fra i vicoli di Bergamo e la scopro nuova e inaspettata. Passeggio con un amico e so già che custodirò sempre quei momenti nel mio cuore. Mi rendo conto di quanto sia importante per me e mi dico che vorrò che sia nella mia vita sempre; sono al mare, sento gli uccelli cantare e un'amica mi dice che si è appena resa conto che siamo immensamente piccoli; sono nella mia Bologna e ho accanto i miei amici che parlano delle città che hanno visitato. Uno di loro giura che il miglior spettacolo del mondo è Parigi vista dall'arco di trionfo al tramonto. Tutti ridiamo, parliamo delle nostre terre lontane, ci diciamo che a Bologna non potremmo vivere e c'è chi ci dice che desidera viaggiare e vivere lontano. Sono fra queste, in questa mia irrequietezza che mi fa andare continuamente via dai posti che ho a cuore. Parlano della cupa Berlino che non è quella di cui sta parlando l'altra nostra amica. Penso a quanto uno stesso luogo sia diverso da persona a persona. Neanche quelli sono certi, anche quelli soffrono delle critiche di stranieri e anche quelli vengono apprezzati in maniera diversa. Sono persone. Passiamo il pomeriggio fra i viaggi. Ho in cuore la Francia, in quel momento, il mio viaggio imminente, la mia scelta di andare via. Riapro gli occhi e torno nella mia cameretta. La malinconia mi assale al solo pensiero di quel passato e di questa realtà così poco spensierata. Vorrei richiamarli tutti e ricordargli che hanno viaggiato, che sono stati bene, invece non faccio che bloccare e sbloccare il telefono in attesa di un loro "sto bene, non ti preoccupare" e quasi vorrei pregare Dio affinché potessimo tornare indietro. Non lo faccio, non oso: c'è chi sta morendo e io sono - ovattata - in quattro mura. Resisteremo per questo, mi dico. Ma intanto i giorni passano e perdo la fede in tutte le cose che avevo creato e che avevo caricato di aspettative. In un piccolo saggio uscito con Repubblica, l'autore dice che la cosa che ci ha insegnato più di tutto questo diffondersi di una minaccia che non dipende da noi, è che siamo interconnessi. Ho immaginato il mondo come una ragnatela, tutti legati l'uno con l'altro a formare un grande mosaico. Siamo fiori dello stesso prato - penso mentre lo leggo - ma alcuni di questi fiori sono ai margini della strada e possono venir colti più facilmente. Interconnessi, quasi come legati dalle stesse radici. Freno i pensieri e faccio un disegno: disegno l'Italia, poi la Francia, la Germania, la Spagna, l'Africa, il Brasile. Mi rendo conto che il mio mondo è connesso con tutti questi luoghi e forse me ne rendo conto per la prima volta. Comincio a sentirmi ancora più vulnerabile. Non è solo l'Italia a rischiare, non è solo la Francia, ma è il mondo intero. D'un tratto faccio, facciamo parte del mondo e ne siamo consapevoli. Siamo passati da comunità a umanità senza rendercene conto.

Non si arrabbi la felicità se la prendo per mia, dice ancora la poesia. Allora io prometto che tutto questo dolore avrà un senso e che ricorderemo i pianti, l'odore del caffè di prima mattina, i messaggi, l'esserci nonostante la distanza, la paura, la rassegnazione, lo sport fatto, le torte mangiate, l'odore del pane fatto in casa, i balli improvvisati, le cose conosciute e riscoperte, la famiglia che avevamo dimenticato, il segnalibro fermo ancora su una pagina, le volte in cui abbiamo creduto di non farcela, una voce distante che ci dice che andrà tutto bene, le conferme nel cuore, il senso di inquietudine, la cura di noi stessi, l'amicizia, la lontananza, le storie lette a bassa voce, le lettere ricevute. E poi torneremo a raccontarci e riscoprirci migliori.

Non avermene, lingua, se prendo in prestito parole patetiche, e poi fatico per farle sembrare leggere, termina la poesia.

Non voletemene, amici miei, se per ringraziarvi uso una poesia. So che capirete.  



Valentina Salierno

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