Terrestre e celeste, coincidere con il mondo: il simbolismo medievale

08.12.2020

L'humus di quest'epoca, linfa vitale, fu il popolo, da cui si attinse in ogni momento per una riabilitazione della società che, privata dell'antico e primitivo slancio vitale con il quale le classi dominanti si erano andate a imporre, decide di riaffondare il suo tronco nella terra per ritrovare le sue radici più profonde e riabilitarsi[1]. È proprio in questo momento che, da parte degli studiosi, si verifica quello che nelle manifestazioni letterarie sembra andare a segnare una distinzione fra il «dotto» e il «popolare»[2]. In questa maniera, si va a definire - tuttavia - un'identità fra il «popolare» e l'«ignoranza», figlia della convinzione che alla base del fenomeno letterario ci sia sempre una cultura[3]. Ma, se si pensa che lo splendore del Medioevo sopravvive soprattutto «nella canzone popolare, nella musica, negli sfondi tranquilli del paesaggio e nei gravi vôlti dei ritratti»[4], ci si rende conto che c'è una parte di quest'epoca che si incrocia continuamente con il quotidiano. Questa è quella parte più popolare, meramente genuina, che, come un nocciolo, si preserva, per dare origine alle cose che oggi si pensano parte di un sistema di valori soltanto recente, ma che non sono altro che le foglie di un albero che affonda le sue radici in un terreno fertile di credenze, di valori, di superstizione. Lo storico Jacques Le Goff ricorda come Piero Camporesi[5] parlò dell' «optique populaire du difforme, du démesuré, de l'hyperbolique (ou du miniaturisé), du monstrueux, du débordant, de l'informe»[6] in un' «image du monde» che rispecchia la mentalità popolare e che differisce dal modello classico con cui i chierici rappresentavano la realtà. Si tratta di un'immagine del mondo in cui non vi è alcuna centralità spaziale e temporale, ma in cui il tempo è avvolto su sé stesso, andando a creare l'immagine di un altro mondo, onirico[7]; sebbene il sogno e il ricorso alle visioni diventi un topos comune nel Medioevo, utilizzato sapientemente anche dagli uomini di Chiesa, non bisogna dimenticare che la sua origine appartiene all'immaginazione popolare[8]. La cultura dotta si servì di questo dato folkloristico soprattutto per quanto riguarda i viaggi ultraterreni. Il punto di sella di questo processo è nella christianisation[9], che comincia a manifestarsi con la sostituzione dei motivi pagani con quelli cristiani. Le guide del viaggiatore diventano rispettivamente dei Santi o degli angeli, anche se gli animali psicopompi sono - talvolta - ancora presenti. Tutti gli oggetti o i simboli che proteggono il viaggiatore lungo il suo cammino sono oggetti cristiani come le croci[10]. Questo simbolismo religioso, che mirava ad interpretare qualsiasi evento terreno come una manifestazione del divino[11], dimostra quanto la vita dell'uomo medievale fosse impregnata nella sfera religiosa, tanto che la distanza fra le cose terrene e quelle divine correva il rischio di essere dimenticata continuamente[12]. Il fiorire di questa nuova simbologia e di queste nuove forme, non conduce il Medioevo verso una rottura con i mondi esterni, ma anzi, «uno degli aspetti del suo genio è infatti questa capacità d'assimilare senza tradire sé stesso»[13]. Lo straripare di immagini non si spiegherebbe se non vi fosse per ogni cosa che abita il mondo, un suo posto nel sistema del simbolismo; ci si nutriva della convinzione che non esistesse in Dio nessuna cosa che fosse vuota e senza significato, riassumibile nella sententia di Irenaeus[14] riportata da Huizinga: «nihil vacuum neque sine signo apud Deum». Vi era fiducia nel fatto che la leggibilità di questi segni che venivano utilizzati, risiedesse nella capacità da parte di questi uomini di riuscire a carpirne il significato e «di riconoscere segni ed emblemi sulla scia della tradizione, di tradurre una immagine nel suo equivalente spirituale»[15]: nasceva, in questo modo, un mondo creato come un grandissimo sistema di simboli. Secondo Ugo di San Vittore, il mondo è un libro scritto dal dito divino, che va interrogato come se ogni suo elemento fosse lì posto da Dio per istruirci[16]. Si tratta di un'esigenza che, secondo Umberto Eco, risponde all'ermeneutica e non ad un'idea cosmologica, che nascerà come allegorismo scritturale per poi diventare quello che prenderà il nome di "simbolismo universale". A questo punto, quello che viene chiamato allegorismo o simbolismo, comincia a delinearsi e a separarsi, secondo delle vie diverse, pur restando due realtà dai confini permeabili che, continuamente, si compenetrano a vicenda[17]. Il Medioevo abbonda di letture allegoriche, soprattutto nei testi poetici, come - ad esempio - le favole che, pur descrivendo una realtà palesemente falsa, nascondono al loro interno delle verità morali[18]. Nelle manifestazioni letterarie di questo periodo, i luoghi in cui si compiono i viaggi, sono dei luoghi cristiani, che vengono - quasi del tutto - ridotti a tre spazi principali: Inferno, Purgatorio e Paradiso. Questi spazi sono organizzati e razionalizzati in una struttura che vede la sua massima espressione nella Divina Commedia[19]. Comincia a manifestarsi anche sotto l'aspetto linguistico un continuo scambio fra espressioni che appartengono alla sfera religiosa per la descrizione di cose profane[20], tant'è vero che l'uomo medievale comincia ad esprimersi con un linguaggio religioso anche per parlare dei suoi sentimenti. Si tratta di «una tensione fra due poli spirituali, appena concepibile per la coscienza moderna»[21], che permette un marcato dualismo che scinde la vita di questi uomini: le cose più elevate che hanno direttamente a che fare con il divino, vengono completamente assorbite dalla religione, mentre gli istinti più bassi - come quelli sessuali - vanno ad alimentare una realtà peccaminosa, nelle fauci del diavolo, che si vendica in maniera sfrenata[22]. Un coincidere con il mondo, questo, che nella vita dell'uomo del Medioevo va a coniugare entrambi i regni dell'esistenza, quello terrestre e quello celeste. 


[1] A. Pasquali et al., Antologia della letteratura italiana, vol. I, cit., p. 36.

[2] Ivi, p. 36.

[3] Ivi, p. 36-37: «E questo è vero, purché si specifichi che questa non debba essere una determinata cultura, quella adesso universalmente riconosciuta come tale per il fatto che si è imposta o sviluppata (...). Altrimenti si corre il rischio di riportare le origini di ogni manifestazione letteraria ad una categoria assoluta del dotto».

[4] Johan Huizinga, L'autunno del Medioevo, cit., p. 39.

[5] P. Camporesi, Il pane selvaggio, Bologne, 1980 in Jacques Le Goff, L'imaginaire médiéval, cit., p. 87.

[6] Ivi, trad. it «ottica popolare del deforme, dello smisurato, dell'iperbolico (o del miniaturizzato), del mostruoso, del debordante, dell'informe».

[7] Ivi, p. 155.

[8] Ivi, p. 155.

[9] Ivi, p. 156.

[10] Ivi, p. 156.

[11] Ivi, p. 215.

[12] Ivi, p. 213.

[13] Jurgis Baltrušaitis, Le Moyen Âge fantastique. Antiquités et exotismes dans l'art gotique, Paris, 1972, trad. it. Fulvio Zuliani e F.Bovoli, Il medioevo fantastico, Antichità ed esotismo nell'arte gotica, Adelphi, , prefazione, p. 40.

[14] Adversus haereses libri V, 1. IV, c. 21, in Johan Huizinga, Autunno del Medioevo, cit., p. 283, trad. it. «In Dio niente è privo di senso».

[15] Umberto Eco, Arte e bellezza nell'estetica medievale, 1a edizione Bompiani, 1987, p. 93.

[16] Umberto Eco, Dall'albero al labirinto, studi storici sul segno e l'interpretazione, La nave di Teseo, , p. 157.

[17] Ivi, p. 161.

[18] Ivi, p. 163.

[19] Jacques Le Goff, L'imaginaire médiéval, cit., p. 156.

[20] Johan Huizinga, Autunno del Medioevo, cit., p. 214.

[21] Ivi, p. 246.

[22] Ivi, p. 246.


In foto: 

Hieronymus Bosch, Trittico delle delizie: parte centrale - Il giardino delle delizie, 220 x 195 cm, Museo del Prado, Madrid.

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