Poeta Muto e Altro: farsi spazio nel mondo

21.08.2019

POETA MUTO E ALTRO

di Vittorio Parpaglioni Barbieri, I quaderni del battello Ebbro, 2019.

Che cosa fare quando non si ha voce?

Una volta lessi per caso che la nascita della pittura aveva a che fare con l'amore: un'ombra ricalcata su di un muro per mano dell'amante, decisa, in quel modo, a lasciare che il profilo del suo amato rimanesse lì impresso su un pezzo di marmo. Convinta - così come lo sono ora, del resto - che qualsiasi manifestazione artistica e letteraria sia mossa da una sfrenata esigenza dell'uomo di dare voce alla sua voglia di amore, ho cercato di identificare in ogni gesto un qualcosa che avesse a che fare con questo strano moto interiore, sconosciuto e misterioso. Ho cercato in ogni cosa: saluti, baci sfiorati, abbracci durati un secondo di troppo; anche nei litigi, molte volte, ho cercato delle ragioni che avessero a che fare con l'amore. Ancora oggi, cerco fra le mie cose e quelle degli altri, alcuni presentimenti d'amore che possano non farmi mai ricredere. Nessuna cosa, però, mi ha mai fatto dubitare della sua esistenza, anche quando tutto mi è sembrato irrecuperabile, e quella cosa è la poesia. La poesia che mi ha dato tutto e nulla. La poesia amputata e sofferta, quella che, qui e ora, rende la vita vita.

Non avevo mai capito - o sperimentato, fino ad un momento ben preciso - che la grande forza di quei pochi versi tutti diversi fra di loro fosse nella condivisone. Emily Dickinson dice che una parola comincia a vivere nel momento in cui viene pronunciata, nel momento in cui diventa, riprendendo un'intervista di Alda Merini, vestito incandescente sul corpo del poeta. Provare tutto questo sulla propria pelle, ovvero donare delle parole all'aria e permettere che quello scritto diventi sul serio vivente e non esistente solo per noi stessi, significa trovare qualcuno che possa permetterci che quella parola diventi carne viva; qualcuno che accenda il nostro stretto vestito per renderlo fiamma che ci illumina. Una miccia. La poetessa russa Cvetaeva scrive un libro per la sua migliore amica, Sonecka, e nel farlo parla anche di un altro amore, quello per Volodja: l'uomo con cui intratteneva notti di conversazioni, suo amore platonico e intelligente, amore senza alcun risvolto. Per me questo è stato Vittorio Parpaglioni Barbieri, che assocerò per sempre al momento in cui ho partorito una mia idea di poesia e di fare poesia, nella luce soffusa del suo monolocale, fra le pieghe delle nostre giovani esistenze, che cercavamo di intrecciare con letture della mano. Insinuato, un giorno, nella mia vita, è stato ed è, la persona che più di tutti mi ha insegnato a parlare e, a distanza di anni dalla vera prima volta, "ad allacciarmi le scarpe" in un mondo (quello poetico), che è pieno di porte chiuse e tranelli, ma libero e limpido se si sa vivere.

A lui devo una consapevolezza, che in questo libro è il filo conduttore e fedele appoggio: la poesia è amore, che sia fatta di versi tristi o felici, questo non ha alcuna rilevanza. Ma per essere tale deve essere universale, deve parlare al mondo, perché, noi tutti, viviamo in questo cielo fatto di "stelle di pane". Il poeta traccia l'ombra della vita che vede su di un muro che verrà visto da tutti e, si spera, sempre amato e conservato.

Grazie per avermi insegnato a guardare le persone. Grazie per essere il mio Volodja.

VOLODJA

Nel dire di quanto sia particolare

respirare e inspirare nuvole del cielo, quando

seduto da un capo, questi ti guarda

-come respirasse te- anche da così lontano

con occhi spirito cuore serviti in una mano...

insomma, nel dire ieri ad un amico di questo

piccolo gesto che isola la figura dal reale,

ti ho pensato seduto sul letto disfatto del tuo mattino,

nelle notti in cui mi tenevi stretta a delle catene

legate alle tue mani, che nell'aria disegnavano

le tue parole senza inganni: uccelli nell'aria

della tua bocca sottile e sempre alla ricerca

di cose da toccare e da mandare via.

Nell'immaginare la scena - ma solo in quel momento,

te lo assicuro - ti ho rivisto steso sul letto di un ottobre lontano,

vissuto parlando l'uno accanto all'altro.

Ti ho visto portare alla bocca la sigaretta,

guardarmi nella tua nebbia osservarti, mentre

fra le mie labbra - diverse dalle tue - foglie

bruciavano nervosamente l'amore che dimenticavo.

La luce era soffusa - a noi piaceva così - e noi,

incapaci di guardarci negli occhi vivi,

sfocati nell'apparenza della realtà costruita.

Così sono passate le sere,

tu ad un estremo a parlare di mistero,

io rannicchiata nell'altro, chiara nel destino,

a parlare della verità che - fra di noi - s'addentrava nemica.

Così, quando ho letto dell'amore di Marina

per il suo Volodja che nelle notti la occupava,

ti ho associato al pensiero di un'amicizia pura,

quella di anime che s'incontrano senza lasciarsi.

Ignoravo il finale: Volodja che va via, lontano

Marina che pensa, ormai sola sul divano

che il camino comune partiva da loro stessi,

compagni di viaggio - necessari - ma

che ora bisognava uscire, lentamente

a ritroso, livellando poi con i piedi

la nuda terra.


Prendete una serata estiva in un parco di Bologna. Una bottiglia di vino, due persone, Victor Tsoi che canta in sottofondo. Immaginate uno dei due improvvisamente tacere, farsi piccolo e indifeso, mostrarsi vulnerabile mentre il mondo continua disinteressato il suo moto. Mettete l'altro che osserva la tristezza fare ombra sul volto come se una mano si frapponesse fra quel volto e il sole, scrollarlo e ricevere come risposta una sola: aspetta un attimo, lasciami soffrire un po'. Il Torquato Tasso di Goethe dice che mentre i comuni mortali devono soffrire in silenzio, egli, il poeta, ha la facoltà di esprimere il suo dolore. Così dobbiamo pensare V.P.B, che della sua poesia fa l'ombra che gli colora il viso, senza mai odiarla, amarla di meno, accantonarla. Possiamo leggere le poesie di P.B, inondate da un profondo amore per la vita che pure si scontra, a tratti, con il dolore che discende dall'essere uomo, mortale e senza alcun potere (non avrò più dominio/amici/sulle vostre morti,/vedendovi andare come scintille).

L'essenza di una persona si riconosce dal modo in cui ti guarda: se lo sguardo è fisso, se ti guarda negli occhi, se evita ogni tipo di contatto visivo. Gli occhi nascondono la verità che il nostro corpo ci tace e che la mente distorce, e insieme al cuore diventano organi assoluti e fondanti dell'essere umano. Quando penso agli occhi penso a Modigliani, a quelli di Jeanne non disegnati, ai contorni sfocati che li uniscono al viso. Per ora la poesia, nella mia vita, è come gli occhi che disegnava Modigliani alle sue modelle: inafferrabili, non riproducibili, perché si conoscono gli occhi di una persona quando si conosce l'anima; così la poesia: la si può ritenere compiuta quando scoperta interamente, spiegata. Questo non succederà mai e questa è la sua eterna bellezza. Nella mente delle parole del mio primo poeta:

Far poesia è come fare l'amore: non si saprà mai se la propria gioia è condivisa (il mestiere di vivere, Cesare Pavese).

Tratterò della poesia di Vittorio Parpaglioni Barbieri, per il semplice fatto che merita un posto nel mondo della scrittura.

Nel suo libro su Modigliani, Wagner, proprio al principio, dice una cosa fondamentale: "per un'artista il termine felicità ha un significato alquanto diverso che per l'uomo comune. L'artista è disposto a sopportare lunghi anni di povertà e disagi, più dei suoi simili (...). Eppure, se dice di essere felice, la sua affermazione è sincera e incontestabile". Inusuale, forse, se non inconcepibile all'uomo comune, la passione che muove le ambizioni e i moti interni dell'anima.


Ho avuto la fortuna di incontrare V.P.B. in un centro di poesia contemporanea dell'università di Bologna, dove tutt'ora studia. Sarebbe giusto parlare della sua indole, così schiva e solitaria (atteggiamento mutato solo un anno dopo), ma questo non renderebbe giustizia a quello che effettivamente è la sua persona e il suo modo di fare poesia. Dal centro provengono le prime influenze legate ad autori quali Fortini, Sereni, Luzi, che in quel momento venivano molto letti e che dovettero entusiasmarlo. I suoi primi consigli di lettura nei miei riguardi furono proprio questi poeti, che al quel tempo mi erano sconosciuti e che si immisero nel mio cammino solo grazie a questo incontro. Più di tutto, però, contemporanee allo sviluppo e genesi di Poeta Muto, dovettero essere fondamentali, se non fondati in questa prima fase della sua poesia, l'influenza del poeta inglese Elliot e di Dylan Thomas, che verrà ricordato con una ripresa di verso in anafora nella poesia e non avrò più dominio, chiaramente ispirata a and death shall have no dominion.

La poesia nasce nel momento in cui l'uomo comunica con la natura e capisce di farne parte. Fra le ipotesi più romantiche sulla nascita della poesia, abbiamo quella di Hugo nella sua Prefazione a Cromwell, nella quale, andando a definire le varie fasi ed evoluzioni della poesia, parla della rinascita della poesia lirica come di un evento di ricongiunzione fra la contemplazione dell'uomo nei confronti della natura e il suo silenzioso mistero: l'uomo, in comunione e contatto con il mondo, fa della poesia. Niente di più poetico, quindi, per descrivere quella che è la nascita della poesia e il misterioso moto dell'animo dell'uomo che, quasi come per magia, scrive per il bisogno di sentirsi spiegato in una dimensione che - effettivamente - nasconde mistero e paura. Nel momento in cui nasce quel sentimento di compassione (identificato da Hugo a partire dalla nascita del cristianesimo), l'uomo si fa empatico e comincia a nascere una collettività che, come sua espressione poetica, utilizza un tipo di poesia che diventa drammatica: poesia che ha a che fare con gli uomini e non con la sua sola dimensione universale. Molto più tardi rispetto ad Hugo, un poeta caro alla nostra memoria, dirà che la poesia è poesia quando ha in sé dell'universale, quando uno, leggendo dei versi, può specchiarsi in quel frammento di universo senza riconoscerlo estraneo. Ungaretti, che in questa idea di poesia pare abbracciare il mondo intero, dirà che poesia è poesia quando porta in sé del mistero, nascosto e sepolto in un porto a noi irraggiungibile. Universalità e mistero sono gli ingredienti dei quali si serve il poeta. La poesia, come dice Arminio, è un mucchietto di neve in un mondo con il sale in mano, perché materia che fugge, che scivola sui san pietrini della nostra città e si insinua fra le pieghe delle vesti, lasciando trasportare da una parte all'altra senza alcuna tregua e senza essere sentita. Per difendersi, questo, dall'insoddisfatta fierezza nel ritenerla appendice del mondo, fattore aggiuntivo e non fondatrice e canto dell'umanità.

Nella poesia di Parpaglioni Barbieri ritroviamo tutto questo: il pianto del poeta per il mondo offeso, la forza dell'uomo-poeta immerso - fino ai gomiti - in quelle epifanie tanto care al Montale. Ma la sua poesia non è così ancorata a questi nostri vecchi pilastri. P.B. è il poeta muto che cerca di dare voce al silenzio: e adesso forse pazzo racconto quello che alcuni avrebbero voluto dire (p.10, Assenza, Poeta Muto e Altro) e benché non vi è nessun richiamo al poeta Bosniaco Izer Savajlic, i due sembrano stringersi la mano quando da un lato Izet Sacajlic nella sua ultima raccolta intitolata "il libro degli addii" scrive: "moriamo terribilmente presto/e terribilmente male in questa città" e V.P.B, dal canto suo: " non avrò più dominio sulla tranquillità/dopo l'urlo della morte" (p.29, e io non avrò più dominio, Poeta Muto e Altro).

Non vi è, come ho già detto, nessun legame fra i due poeti e questo è evidente anche dal fatto che Izet Savajlic non è fra i poeti letti da P.B, soprattutto nel momento della stesura del libro. Il bosniaco è anche noto per essere stato grande amico dello scrittore Erri De Luca e fu, infatti, proprio grazie a lui che mi avvicinai alla sua poesia. Un giorno, parlandone con P.B, lo trovai d'accordo su un'affermazione dello scrittore napoletano sulla poesia del suo amico, ovvero che la sua grandezza era consistita nel raccontare della quotidianità e di aver dato voce ai tanti bosniaci che, in quel determinato momento storico, non ne avevano più. È questo il ruolo dell'intellettuale e dello scrittore: non un parlare di sé e della propria dimensione nel mondo, ma il dare voce a chi voce non ne ha e non per una condizione fisica, ma per mancanza di coraggio, per paura. Lo scrittore è colui il quale si fa portavoce della quotidianità e parla universalmente, livellandoci tutti a livello di uomini (mi sembra doveroso ricordare qui l'impegno dello scrittore nei confronti della TAV e della popolazione della Val di Susa). Quel pomeriggio, raccontandogli proprio di questo incontro con lo scrittore, arrivò (come un fulmine, un'affermazione piovuta dal cielo) la ragione del titolo "Poeta Muto", che - così doveva essere dal principio - affondava le sue radici in quegli stessi motivi; ecco il perché di questa vicinanza e sodalizio poetico che, nelle mie ragioni di pensare la poesia di P.B, me lo rende molto vicino a questa poesia quotidiana e illuminata. Quotidianità senza alcun bisogno di artifici retorici, ma nuda e cruda, strozzata nella gola dei poeti-cantori della vita. Savajlic parla della guerra bosniaca in una continua collettività enunciata dal noi, senso di quella poesia drammatica enunciata da Hugo (che possiamo fare allora, noi di Trebinje? - poesia d'amore degli anni '60 del secolo); la poesia di P.B. è quella di un io che cerca di trovare la sua dimensione, il suo spazio specifico nel mondo e che si attorciglia e annoda fra le pieghe dell'umanità, conferendo - in questo modo - alla sua parola quella componete collettiva che abbiamo detto essere indispensabile per la poesia. Qui è il poeta che impara come stare al mondo e lo fa attraverso gli occhi di altri, dall'esperienza altrui, assetato del mondo che lo circonda. P.B. beve il mondo dalla bocca di altri, perché affascinato dalle esperienze e dai racconti che possono, in qualche modo, dargli la spiegazione di altre cose, come se la sua dimensione e la sua esperienza con la realtà fosse un'enorme matriosca e lui, con i suoi racconti e incontri, potesse, una a una, andare avanti e arrivare al nocciolo della scoperta; comunque - la scoperta - non troverà mai la luce, perché il poeta è sempre disposto ad andare oltre e a trasformare il seme, a sua volta, in una nuova matriosca con cui giocare. Come Caedmon, P.B., scrive una poesia avvolta dalla nebbia del sogno: il lettore - quasi - si sente come Macbeth e insieme ai versi, passo dopo passo, cerca spiegazioni a tentoni. Una dimensione, dunque, è quella del sogno "tutto il passato mi scivolò sulle mani come la loro pelle, e sorrisi e l'amai come un me del passato, come un padre morto e tornato in sogno - o ancora - la madre distrutta ha parlato di sogni con voce rotta e confusione, e solo il bambino innamorato le ha creduto (p.12, Assenza, Poeta Muto e altro). Madre veggente - quasi musa attraverso la quale il poeta entra in contatto con il mondo - che potremmo considerare la fiamma che ha scatenato l'incendio: l'incommensurabile e imparagonabile voglia di utilizzare gli organi sensitivi al massimo delle loro potenzialità, toccando ed esplorando il mondo, l'umanità: dovevo scappare dove le foglie e il vento mi avrebbero rincorso. Dove la luna mi avrebbe detto, e i libri mi avevano detto, che io ero nuovo (p. 22) - o ancora - mi faccio portare da questo mare dove la grande madre e sorella di Prometeo mi culla. Adesso che ho richiesto la pace ho dovuto imitarli per conquistare il loro amore (p.25).

Percorso individuale che finirà, nella prima parte del libro, risolto:

Allora non ci sarò più io, con queste mani, con questa bocca, questi occhi; ma saremo noi, come stelle, come un unico universo, indifferente (p. 26)

Si dà così il via a quella che la raccolta poetica del libro, quella che ricalca i temi della parte di poesia/racconto in prosa, ma che dispone e mette in evidenza il carattere e particolarità del verso del poeta: spezzato, breve, dritto al punto. Poesia poco retorica, ma piena di espressioni che fanno rendere conto al lettore che si trova dinnanzi ad una poesia visionaria (vd. pensando alla solitudine che ci pioveva nello stomaco, p. 34 / dove le stelle sono di pane), aria fresca.

Poesia che abbraccia il mondo, poeta che cerca il suo posto. Lo troverà - c'è uno che porta il suo nome da sempre - e di questo siamo certi tutti.



di Valentina Salierno

L'autore


Vittorio Parpaglioni Barbieri è nato a Roma nel 1998. Attualmente studia Lettere Moderne all'università di Bologna. "Il poeta Muto e Altro" è la sua prima pubblicazione.

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