La fine del chiunque

25.02.2019

Io ero immersa nel caos. Il caos che la vita richiama a sé ogni volta che tutto procede secondo un ordine. Chiedevo ai passanti il perché e loro mi rispondevano "vedrai che passerà" e continuavano la loro corsa. Io attendevo così come i bambini attendono i genitori fuori da scuola che qualcosa cambiasse e l'ho aspettato fino all'ultimo minuto: fino a quando berretto nero e giubbotto lungo mi ha sorriso dolcemente e mi ha detto "smettila di aspettare". Io ai passanti credevo, annoiata com'ero della mia vita così monotona e a loro affidavo le mie sensazioni, i miei sentimenti. Erano bravi, loro, a giudicare un'estranea:

-dovresti fare così - o - no, prova altrimenti- oppure - cambia strategia. Io li ascoltavo perché sono sempre stata più brava ad ascoltare gli estranei che le persone della mia vita e allegra, senza pensieri, me ne andavo via con il monito di uno sconosciuto in tasca. Ci credevo, poi, e lottavo - lottavo - contro i miei amici per via di quelle discussioni che avevo in strada con sconosciuti. Mi dicevano, poverini, di non fidarmi di chi non mi portava nel cuore, ma a me non interessava: era più semplice così. Ogni mattina, alle otto, mi mettevo davanti alla panchina che fa angolo con la piazza e aspettavo (con pazienza impeccabile) che qualcuno parlasse con me: un vecchio, un bambino, una giovane mamma o un padre stressato. Non mi interessava: chiunque, per me, era uguale. -Chiunque, chiunque - diceva la mia testa - che si fermi chiunque e che parli con me!" - e, in cuor mio, se vedevo passare qualcuno senza rivolgermi neanche un sorriso, cominciavo a provare molta tristezza. Di solito, però, non succedeva: chiunque si fermava sempre e io ponevo domande, anche stupide, e quel chiunque era sempre disposto a darmi un consiglio, a dirmi - senza peli sulla lingua - la verità. Quelli che preferivo erano gli anziani e se erano arcigni, segnati dal tempo, mi piacevano ancora di più; con loro parlavo di tutto, perché ormai la vita ce l'avevano ben incastrata sulle spalle e portavano i pesi dei loro ricordi tutti imballati nella memoria e perciò li estraevano più volentieri, li disponevano in maniera lucida per ricordarli. I giovani non sono così, i giovani hanno tutto ancora fresco e non prestano attenzione ai particolari; per loro tutto scorre veloce e si - che importa - se non si fa attenzione alle sfumature. Io avevo bisogno di questo, invece. Avevo bisogno di estranei che mi dicessero che le sfumature erano quelle da ricercare e che me lo dimostrassero. Questi vecchi o vecchie arcigne/i, erano per me i migliori compagni di conversazione: zero delicatezza, zero sensibilità: la realtà cruda e nuda per quella che è. Io dicevo: mi dispiace perché ci sono persone che soffrono - e loro pronti a dirmi subito: pensa a te, che l'uomo è egoista. - e allora io ribattevo e dicevo qualcosa come tipo: si, ma bisogna che cambi. - e loro, allora, mi prendevano per il braccio e mi guardavano : c'è, bambinetta, qualcuno che si dispiace per le tue sofferenze? - e perciò io non rispondevo, perché in quegli occhi arguti e così cattivi (a tratti) riconoscevo che no, effettivamente non c'era nessuno che si preoccupasse delle mie sofferenze così tanto. Oppure c'erano, ma non erano per me importanti. Io apprezzavo questa brutalità e la riservavo in ogni dove. Aspettavo desiderosa anche le mamme, qualcuno che mi chiedesse che cosa facessi lì, che mi facesse domande sulla mia famiglia, la mia vita e che mi parlasse della sua. Le mamme mi piacevano, ma non le preferivo: dolci, fasciate dall'amore per i loro figli; una realtà imbellettata nella quale non riuscivo a intromettermi. Chissà - pensavo sempre dopo aver parlato con una di loro - come sarà quando si renderanno conto che i loro figli le odiano. Vedevo nel genere umano un non so ché di maligno e più tentavo di ancorarmi a questo con il pretesto di discussioni e cercavo di conoscerlo per ritrovare speranza, più lasciavo che commenti cattivi o consigli sbagliati mi portassero via da quello che dovevo essere. Mi ero avvicinata al genere umano per istinto chiamato all'amore, all'umanità, e me ne ero radicalmente allontanata dopo neanche qualche mese di questa mia attività, in cui i consigli malati era ben accetti rispetto ad altri più dolci; della dolcezza, io, non sapevo che farmene. Così me ne andavo camminando per le strade di questa città e consumavo le suole a furia di fare avanti e dietro e bruciavo la mia faccia al sole per le attese sulle panchine. Parlare, parlare: che altro è parlare se non un farsi plasmare? Così debole ero diventata da non riuscire a pensarla diversamente e mi piaceva - forse (anzi: lo ammetto) - cambiare a seconda delle persone: più dolce, meno graziosa, più forte, più egoista. Tanto - sorridevo a me stessa - gli estranei sono estranei e far da teatrante in una vita che è già palcoscenico non era altro che assecondare la mia natura di uomo. E, così, son cambiata mille e altre mille volte durante i mesi. Affogavo, tuttavia, il mio cuore in della tristezza che fioriva in fondo al petto, giorno dopo giorno. Non pensavo più quelle cose belle di una volta, né mi interessava fare quello che avevo sempre fatto. Me ne infischiavo della bellezza, dell'arte, di tutte quelle cose che avevo sempre difeso. Me ne infischiavo semplicemente perché non mi interessavano più e ero quieta, tranquilla in questo non essere me.

Era un giorno di pioggia e nessun vecchio s'era fermato per riposarsi alla panchina e i bambini erano tutti via e così anche le mamme. Io ero lì, però, ferma ad aspettare qualcuno e un po' mi dannavo, convinta com'ero che bisognasse uscire di casa sempre, perché casa è come una sorta di inferno dal quale scappare. Allora, proprio mentre stavo ormai abbandonando le mie speranze di poter parlare con qualcuno, ecco che giubbotto lungo e cappello nero si ferma e mi guarda. - Le serve una mano? - mi chiede gentile e io rispondo di no. - Dove va con questa pioggia, signore? - gli chiedo per non farlo andare via. Questi arresta la sua corsa e dice - è strano che uno faccia una domanda così ad uno sconosciuto, non credi? - e io - si, effettivamente lo è, ma è per parlare un po'. - e allora si siede vicino a me e dice più o meno cose come - e di cosa vuoi parlare? - e allora io comincio a dirgli che a me parlare piace e lo faccio soprattutto con estranei, perché sono quelli che possono capirmi meglio e che aspettare che qualcuno si fermasse a parlare con me, era una cosa che mi piaceva e - a tratti - mi affascinava. Giubbotto lungo non poteva crederci e mi rivolgeva sorrisi felici e incuriositi. Era uno che credeva nel mondo, nella bellezza, nell'arte dell'amore e nelle sue conseguenze. Non ne voleva sapere di conversazioni vuote e presto cominciò a parlarmi di sé, dei progetti nei quali era coinvolto, di me. Amava le sfumature e sapeva descriverle. Io, in tutti quei mesi, non avevo racimolato niente di così concreto. Mi sembrava venisse da un altro pianeta: di persone ne avevo conosciute e tutte mi erano sembrate ben amalgamate nella realtà, eppure nessuno così profondamente. Si era fatto tardi per cappello nero e giubbotto lungo che ormai per me non poteva più essere un estraneo, perché una volta che spieghi i tuoi dolori e al parlarne ti si contorce il cuore, ti sei già aperto all'umanità e alla conoscenza. Faceva lo scrittore giubbotto lungo, e sapeva vivere intensamente. Allora mi sembrò una specie di mostro, uscito chissà da dove e non riuscivo a capacitarmi di quella realtà della quale parlava che eppure era anche la mia. Io vedevo un cielo scoperchiato d'innanzi a me e nessuna cosa che mi facesse pensare ad un mondo retto da altro se non da falsità e ingiustizia, incomprensioni e paure; invece cappello nero vedeva profondamente le cose, perfino il nostro incontro - mi ha detto - era poesia. Io della poesia me ne infischiavo già da un po' e non sapevo leggerla più in nessuna cosa e per un attimo mi è sembrato di averla persa per sempre. - Come hai fatto - gli ho chiesto poi - a non cedere a questo mondo offeso? - e allora quello, alzandosi e prendendomi per mano, mi ha detto: ho smesso di aspettare che le cose cambiassero da sole e ho cominciato a cambiarle. Smetti di aspettare chiunque, fai sì che nessuno possa essere per te chiunque - e, alzato il cappello, aveva posto fine alla sua missione. Io lo vidi andar via nella pioggia e avevo il cuore cambiato, la testa al suo posto. Un fiore, ai margini del marciapiede, si dibatteva con la pioggia; - la bellezza è offesa dal mondo - mi dicevo - la bellezza, però, può sopravvivere a tutto questo.

Il giorno dopo il fiore era ancora lì, vicino la mia panchina; ma io non aspettavo più chiunque. Voltai l'angolo della strada.


di Valentina Salierno

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