La casa sul monte
La casa era ai piedi di una montagna abitata da un piccolo santuario. Era di legno e muratura, circondata da un giardino scandito in piccole porzioni, quasi sei piccole parti che abbracciavano una piazzola in cui poi una grande scala color terracotta cresceva per arrivare all'abitato: una struttura in legno di pino custodiva al suo interno quadri e mobilio importante, due ragazzi e una ragazza e una madre apprensiva, moglie accondiscendente. In quelle parti di terreno che si vedevano dalle grandi finestre delle camere, crescevano mandarini, arance, castagne, ciliegie, rose e uva fragola. L'albero di nespole, alla destra dell'abitazione, pretendeva di farsi casa un tetto in muratura, minacciando continuamente di distruggerlo con la sua forza, alimentato dalla presunzione del suo crescere alto, con foglie giallastre e verdi. In estate viveva di frutti saporiti giallo vivo: oro dei poveri, vanto dei ricchi. La terra era dolce, di un marrone scuro che rassomigliava a quello del legno, ed era piena di humus che regalava frutti. Era coltivata giornalmente con pazienza, e scavata, poi ricoperta, poi riscavata ancora. Ma spesso non da chi l'aveva voluta, ma da operai che di quella terra ne avevano fatto un lavoro. Negli anni aveva reso pomodori, fiori, insalata e finocchi: sostentamento della famiglia che vi abitava, che - tuttavia - non ne aveva bisogno. Non cercava, infatti, nutrimento dalla sua terra, ma piuttosto in questa coltivava un sentimento borghese di gloria, per dire agli altri: «c'ho la terra, una villa nel verde costruita dal niente». Questo desiderio di possedere quell'appezzamento veniva tratto dalla volontà di voler imparare qualcosa dalla ciclicità della natura, perché la vita - già quasi a metà dal suo compiersi - non aveva che insegnato a scendere a compromessi, senza mai far girare nessuna ruota; i frutti che vi crescevano erano la conferma di aver appreso qualcosa, il buon risultato della virtù ben coltivata che nel continuo ciclo di quell'esistenza aveva cercato di risolversi. L'uomo che la coltivava era un commerciante e aveva comprato quell'enorme terreno ai piedi del monte con i suoi soli mezzi, all'età di trent'anni. La casa rossa apparteneva quindi ad una parte di quel terreno che aveva poi regalato al padre, che a sua volta l'aveva divisa per i suoi dodici figli. Al commerciante era toccata la porzione più grande. Così, per regalo del figlio, questi si ritrovò ad avere tutta la famiglia in una sola via della città natale: tutti vicini, con case più o meno simili, a condurre l'esistenza in un benessere garantito. Molto più tardi, quella traversa in cui ad una ad una si scandivano queste ville, venne a quel padre dedicata per il merito di aver rischiato la vita come cavaliere di Vittorio Veneto. Motivo di vanto per la famiglia questo di aver servito l'Italia, ma ben presto sovrastato dalla fama di commercianti e ricchi della città; titolo - così a dire - più appagante. La casa dal cancello rosso era diventata ben presto un luogo di ritrovo: immersa nella sua natura, con il suo profilo borghese, dava l'idea che dentro ci vivesse una famiglia felice. Forse questa famiglia conobbe la felicità solo per qualche tempo, ma un sentimento così grande veniva spesso affievolito da una forte dedizione al lavoro e al rispetto del costume. Questo tendeva a reprimere la gioia della semplicità che apparteneva - a quei tempi - ad una classe sociale inferiore. In quelle mura si erano consumati i pianti di una donna dedita alla famiglia, lutti e litigi. I sogni di tre ragazzi che conducevano una vita che si dimenava fra il rispetto e la trasgressione. Fuori dal cancello la vita proseguiva nella sua bolla e mai nessuno, se non le male lingue, avevano osato mettere in discussione il teatrino che avevano davanti: «Tanto sempre a casa torna», diceva la moglie a chiunque osasse parlarle dell'infedeltà del marito, avvolta nella sua pelliccia di volpe e coperte le lacrime da un cappello in raso. Le donne che la guardavano girare le spalle non provavano per lei alcuna pietà, ma semmai ammirazione per l'uomo che - nonostante tutto - soggiaceva alla sua legge di madre quando entrava in casa. Se vi fu una qualche gioia per il commerciante, questa arrivò quando chiuse la saracinesca del suo magazzino. Con quella pose fine ad una vita di compromessi, di relazioni, di carte false per restare in piedi. Scoprì che quella terra che aveva fino ad allora coltivato svogliatamente per mancanza di tempo e che aveva dato ad altri, poteva invece rioffrirgli una nuova esistenza. Smussò insieme alle zolle gli angoli del suo volto. Divenne padre, marito, dopo poco nonno. Conobbe il caldo della sua casa che non aveva mai vissuto, una quiete proveniente dalla condivisione. Le persone gli si rivolgevano chiamandolo Don, segno di rispetto mai perso fino alla sua morte, e in lui confidavano per consigli sulle loro attività, sui loro guadagni, perché il suo fare e il nome erano conosciuti in città. Il commerciante aveva riscoperto la gioia della musica della sua gioventù, che usava come una macchina del tempo per far tornare a galla i sentimenti. Inondava ogni luogo in cui si trovasse di musica locale e canticchiava, muovendo il piede destro a ritmo delle note. Spesso ballava nel salone con la moglie: insieme sembravano riuscire a volteggiare meglio degli amici dei figli che si rincontravano nella taverna della casa la sera. In quei momenti pensò di aver costruito qualcosa, di aver dato alla sua vita un motivo di essere ricordata, nonostante gli sbagli. La casa si arrestò nella pace, nella musica e nella quiete delle menti che ora contavano sulla presenza dell'uomo. Abitata da voci, poi da bambini, cominciò la sua lenta trasformazione: abbattuti i muri, la casa matrimoniale si era fatta più piccola, per lasciare spazio a quella della figlia. La taverna degli amici era diventata casa del figlio minore e un plesso era stato costruito vicino all'abitazione centrale, come studio del figlio maggiore che di musica aveva deciso di vivere, lasciando gli studi. Scelta da quasi tutti contrastata, perché di musica e d'arte non si poteva vivere in quella famiglia. Passarono gli anni e arrivano i nipoti. Il commerciante imparò ad essere indulgente, a tendere la mano, a voler bene qualcuno, a rinunciare alla sua smisurata libertà di uomo. A rispondere a domande semplici che non necessitavano bugie. La sua autorità tempestava le pareti di tutte quelle case e non si muoveva cosa che non fosse sotto il suo controllo. Aveva abbandonato, per quei bambini nati dai figli, il fumo, le sue scappatelle, l'austerità del suo carattere. Aveva permesso a quelle voci di modellargli il cuore. Questi a lui rivolgevano baci tempestivi, fra una corsa e l'altra nel giardino della villa, che ora - con il suo terreno ben coltivato - cominciava a vivere d'amore, promettendo altezze e foglie più lucenti a quegli alberi da frutto. Fra quei cuori che lui stava imparando ad amare, uno forse gli era più affezionato, o almeno lo dava a vedere più degli altri: una bambina paurosa di perdere la strada di casa, la cui prima memoria è proprio di quel commerciate fumare elegantemente fuori la casa, con lei stretta alla sua giaccia a quadri e un cielo notturno davanti. L'uomo stingeva la sua mano bambina fra le foglie del giardino, e intanto le insegnava le stagioni e i fiori. La mattina le accarezzava il viso paffuto e le chiedeva con autorità (ma non senza averle dato prima baci affettuosi): «ti sei lavata la faccia?»; ma la bambina correva fuori nel giardino non appena si svegliava e il viso se lo lavava sempre dopo, quando ormai lo aveva sporcato con le mani piene di terra. Sapeva che non appena sveglia avrebbe ritrovato quel commerciante lì nella terra a sistemare le sue piante e che lei avrebbe potuto seguirlo anche senza fare niente. Le piaceva stare a guardare come prendersi cura di qualcosa, senza saperlo fare. Spesso le raccontava di quando, in giro per la città sul mare, dove questa bambina stava crescendo, tutti la scambiavano per vietnamita, adottata da quei genitori così giovani che lì avevano costruito un altro nido. Lui - le diceva - amava raccontare che sì, quella bambina era di quelle terre lontane e che l'avevano adottata. Con la bugia in tasca, i due se ne andavano in giro per il piccolo borgo, alla ricerca di altri curiosi da ingannare. «Avevi quegli occhiezzulli piccoli e a mandola», le diceva quando ormai la bambina era cresciuta tirandole il mento con le dita e schioccandole un bacio sonoro in fronte; con lei continuava a vagare, a trattarla come se quel suo corpo non fosse grande, ma ancora piccolo, incapace di stare da solo nel mondo: le stringeva ancora la mano quando doveva attraversare e temeva per il suo fragile cuore esposto agli inganni degli altri: «non ti far mettere mai i piedi in testa» le diceva quando la vedeva troppo debole. Agli occhi della bambina ormai adulta, la vera vita di quell'uomo era un mistero. Sapeva che, con la vecchiaia, l'uomo aveva smesso di uscire come prima e quando gli veniva proposto di uscire, le diceva senza timidezza: «ma guarda come sono ridotto, sono un vecchio. La gente si compiace di vedermi così, non riuscire dare un passo»; questo le aveva fatto capire che in lui c'era una certa paura di mostrarsi diverso da quello che era stato, di non essere più quel ricco commerciante da tutti temuto e stimato, ma d'essere ormai decaduto e disperato, sebbene avesse costruito parte di quello che per lui era necessario avere: famiglia, casa, una certa stima che gli altri mostravano nei suoi confronti. Alle volte in cui lei lo pregava di fare un giro, lui le diceva che non era bello far vedere alle persone un uomo anziano a braccetto con una ragazza così giovane e quando lei gli diceva che era normale una simile veduta, lui rispondeva che no, non lo era affatto: «che ne sanno di chi sei, pensano che ti tengo!», diceva con un certo astio. Nessuna somiglianza, infatti, vi era tra i due: gli occhi azzurri e la pelle bianchissima, tradivano i lineamenti orientali della ragazza, che niente aveva che ricalcasse quel volto anziano. Usciva con lei e permetteva di tenergli il braccio soltanto quando a seguito c'era la famiglia e nessun equivoco poteva essere gettato su quei due. La ragazza non comprendeva, ma non smise mai di fargli delle domande sui perché. I segreti della casa, che per tanto avevano gravato sull'anima di tutti, erano stati chiusi in un dimenticatoio non appena nati tutti i nipoti. Ci fu pace, ci fu famiglia. Tutto venne perdonato, non si nominò più il passato. La villa conobbe il momento più vivo: marmellate, pranzi, odore di vino fragola sui palmi golosi. Tutti continuavano ad abitarla di voci nelle notti piene di stelle, a considerarla casa, a sperare che in quel cemento ci fosse qualcosa di proprio, un granello che prima era sulla giacca e poi caduto, un capello volato via per caso, amalgamati per sempre in quel cemento e in quella terra. Tutti sentivano di appartenere a quel posto, a quella famiglia. Ma questo durò fin quando subentrò la consapevolezza e le menti si fecero più raffinate; quando il tempo passò facendo emergere differenze incolmabili. Allora la famiglia esisteva ancora, ma come convenzione, come istituzione sociale e vincolo. La bambina cessò d'essere bambina e cominciò a voler bene ai pochi. L'unità divenne frazionata, la condivisone forzata. Il commerciante continuava a trovare nella sua 'ndindina - così la chiamava - comprensione e conforto. Insieme passavano pomeriggi di musica e di parole. Le raccontò quello che era stato taciuto: si spogliò dei panni famigliari per prendere quelli di uomo. Non fu più nonno, ma essere umano e come tale non più impeccabile, soggetto alle debolezze del creato. Fu per questa fragilità che continuò ad amarlo, perché forse non sapeva fare altro che amare il genere umano nei suoi dispiaceri. La bambina imparò il peso dell'essere adulti, della delusione, del perdono. Ingoiò, insieme al pianto, la consapevolezza di aver vissuto in un teatro, di non aver visto che uno spettacolo. Qualcosa le si spezzò nel petto. Si convinse che era ora si smontare la scena e di forzare la chiusura del sipario. Ma ancora per lei quel posto rassomigliava alla casa che sentiva di non avere altrove e lì tornava per essere felice, per sentirsi quello che in altri posti non riusciva ad essere; per sdraiarsi sulla terra e chiudere gli occhi e spesso ricordava quando, verso i sei anni, cantava a squarcia gola Erba di casa mia, facendo risuonare la voce acuta nel giardino, dove il commerciante sistemava le sue piante e allegramente diceva «ma che dici? Amore mio ti amo?», riprendendo le parole della canzone. L'erba della casa cresceva sempre più alta e più nessuno aveva la forza di stare lì a strappare le erbacce: né i figli, né i nipoti, nutrivano la stessa venerazione di quell'uomo per quella terra, se non un'ammirazione platonica per la natura e per il creato. Non si erano mai sporcati le mani di terra. «Je suis l'Empire à la fin de la décadence» recitava camminando mentre l'ortica le graffiava le caviglie. Ma la decadenza arrivò anni e anni più tardi, quando le luci della villa si spensero all'andare via dell'uomo che l'aveva costruita, che con lei era rinato e morto. Allora fra quelle erbe, fra i fiori che lentamente la bambina strappava ricercando quella visita dei morti che è dovuta ai propri cari, qualcosa per sempre si raggelava nelle pieghe di quella terra. Nell'entrare in casa, in quel salotto ancora vissuto con la poltrona a metà girata e lo stereo ancora attaccato alla presa, raccolse in un ultimo respiro tutta l'aria lì intorno, rendendosi conto che solo quell'ultima volta casa poteva chiamarsi casa e che a breve, sparito l'odore dell'uomo, non sarebbe rimasto che il freddo del disabitato.
di Valentina Salierno