Il più bel fiore ne coglie - coltivare l'umanità

«La versione più attenuata ammette una pluralità di punti di vista alla base delle scelte prioritarie di ciascuno, ma afferma che, in qualsiasi modo ordiniamo queste fedeltà, dobbiamo riconoscere l'importanza della vita umana ovunque essa si presenti e considerarci legati da capacità e problemi comuni a persone che vivono a grande distanza da noi».
Leggo in un saggio della Nussbaum sull'essere cittadini del mondo. Cittadini che coltivano la propria umanità rendendosi consapevoli del loro legame con altri esseri umani; legati a questi non solo da interessi comuni, ma anche dalla necessità di un reciproco riconoscimento.
Mi hanno insegnato, quando non avevo più parole per dire come mi sentivo, che la scrittura è il rimedio contro l'indifferenza, il dolore, l'insana abitudine di volersi risolvere da soli. Quando nel cuore ci sono stati dei dubbi, mi è sempre e solo bastato il metterlo per iscritto. Nascondo nell'armadio della mia casa lontana fiumi di parole che appartengono ad una persona che si è nutrita di sola scrittura e che non ha mai chiesto d'esser sbrogliata da qualcuno se non da sé stessa (almeno per molto tempo). Di quella stessa persona oggi restano pochissime cose, ma una più di tutte: ha attaccato al muro, oggi come allora, quattro personaggi: Pier Paolo Pasolini, Dante Alighieri, Giacomo Leopardi e Cesare Pavese. Amata schiera. E mai è passato giorno senza rivolgere a quegli intelletti un pensiero di gratitudine. Mentirei se dicessi che ho imparato a vivere di sola voce. Ma se c'è una cosa che di me so con certezza è che io non capisco di cosa son fatta fino a quando lo scrivo.
Pier Paolo Pasolini è stato uno dei pochi personaggi italiani a mantenere un'onestà intellettuale e una fede nella sua ricerca così ferrea da risultare fra gli intellettuali più scomodi del nostro secolo. Amato solo da chi lo conosceva profondamente, era odiato per le sue contraddizioni e per il suo avere sempre una parola di troppo. Dario Bellezza, che di Pasolini era intimo amico, scrive: «e credo anche, questo sembrerà paradossale, che nonostante sia un artista di grande valore, non abbia mai dato niente di totalmente significativo per la nostra epoca». E ricordo di aver trovato, in questa affermazione, ciò che più m'aveva - già anni e anni prima - fatto fare di quell'uomo qualcuno a cui ispirarmi: provare ad essere grandi nell'animo, senza necessariamente dimostrarlo a tutti. Essere un delirio, un estremo. Amare la verità più della confortevole accondiscendenza. Amarla ed esserle dediti. Anche se farà male. «Perché, aveva una grande sensibilità», conclude Bellezza la memoria dell'amico. Un male insito nel mondo che fa male ai pochi, a quelli che sanno trovarne traccia negli atti più piccoli. Ma quale destino a queste persone?
Giacomo Leopardi, così tanto fuori le righe da essere descritto da tutti come un infelice. E ricordo che più di tutti lui m'era a cuore, quando - anch'io - ero come lui disegnata. E infatti mi cibavo, prima di andare a dormire, dei suoi versi e forse non potevo chiedere altrimenti che essere associata ad un animo così simile al mio. Ed è questa la ragione per la quale ancora soffro se qualcuno parla del Leopardi come con un animo infelice: lui, che la vita se l'è mangiata a morsi, ghigliottinato dal giudizio che altri su di lui hanno avuto è il primo poeta che mi ha parlato allargandomi il cuore. E sempre ho ricordato, quando avevo male al petto per ingiustizie, la social catena. E ho creduto, grazie a lui, in un mondo in cui - come in un formichiere - tutti erano lì per fare del bene ad altri.
Ma nessuno più di Dante m'ha fatto comprendere che cosa voglia dire amare il proprio popolo e le proprie origini. Credere nella giustizia, nell'onestà, nello schieramento. Il prendere parte e il pretendere sempre che venga presa una posizione. Io non studierei quel che studio se non fossi inciampata nell'Inferno ancora molto piccola. Se non avessi amato i versi di Dante con tutta la mia anima e se non ne avessi compreso il messaggio universale che porta. E cado ancora, a ripetizione, nella contraddizione dell'universale che è nel singolo e pretendo di darmi nuove spiegazioni a nuove letture. E forse quasi sempre ho trovato una risposta diversa dalla prima, per cui quel poeta fiorentino mi ha insegnato a reagire all'ingiustizia.
Cesare Pavese, che ha ceduto alla sua inconsolabile fame di vita. Un uomo solitario, nervoso, stacanovista. Un uomo che per non far vedere della sua solitudine, allora diceva a tutti: «me ne infischio» (che cosa importa di vivere con gli altri, | quando di tutte le cose veramente importanti per ciascuno ciascun se ne infischia?). E forse alcuni l'han creduto, altri lo hanno meglio compreso. Gli amici. Forse neanche tanto quelli, se la Ginzburg si definì sorpresa quando davvero (dopo averlo più volte detto) s'era dato alla morte. Eppure Pavese è il padre di un pensiero che ho nel cuore da anni (Lettera ad Einaudi, 1942): «C'è una vita da vivere, ci sono delle biciclette da inforcare, marciapiedi da passeggiare e tramonti da godere. La Natura insomma ci chiama, egregio Editore; e noi seguiamo il suo appello».
Mentre cerco di farmi una ragione dell'insopportabile vuoto che sento tutt'intorno quando mi rendo conto che vivere d'ideali porta alla solitudine, mi basta ricordare che queste voci mi abitano. Che il Petrarca non sbagliava quando parlava dei suoi autori come amici ai quali rivolgersi nei momenti di incertezza. Sapere, quindi, che sono esistite queste quattro persone e che han sofferto e che pure - a volte - sono state felici ed incomprese, e che solo pochissime altre anime le hanno capite profondamente ( d a c o n t a r l e s u d i u n a m a n o), mi fa fare del dubbio una ragione allegra per continuare a coltivare un pezzo di umanità.
Amen.
di Valentina Salierno