Genealogia dei sentimenti - L'inappartenenza

Inappartenenza. Ne discuto un po' con il mio coinquilino che questa parola non l'ama proprio. Dice che non rende il non appartenere, il sentirsi inappropriati, sradicati. Pensa - forse - di non averla mai sentita. La cerchiamo sul vocabolario mentre Via delle Moline si fa lunga davanti a noi. Esiste, strano - mi dice. Questa parola, da sempre nel mio vocabolario personale, l'ho conosciuta per via di Montale e la sua poesia, e da quel momento mi ha aiutata a dare un nome al vuoto incolmabile che pretendo di riempire d'indipendenza per non avvertirne il peso. Ma come spiegare che cosa vuol dire a qualcun altro senza ricorrere al vocabolario e a pensieri contorti?
Una candela sulla mia scrivania brucia cannella. Io ho la testa in confusione e qualche parola di troppo. Sono giorni di silenzio insopportabile riempito da voci di video su YouTube che nemmeno ascolto. Pretendo di capire discorsi d'altri per non stare ad ascoltare i miei. Rifletto su questa mia geografia personale che mi impedisce di segnare di rosso un posto nel mondo e saperlo casa. Che m'impedisce di voler davvero tanto bene a qualcuno. Ad un tratto mi dico che sono le persone a fare i posti e per molto tempo, se mi guardo indietro, capisco che è stato così. Anzi, direi che proprio una sera, discutendo con V.P.B., questa sia stata una delle nostre conclusioni. E lo ricordo perché io avevo come al solito una valigia buttata sul pavimento di qualcun altro e lui stava per partire per Parigi. Presto anch'io sarei tornata in Francia con il cuore più leggero. Bologna non era già più la stessa, noi avevamo imparato a tirare la corda dei nostri rapporti umani, e già eravamo cambiati del tutto. E mentre cammino nelle strade della città e niente c'è più di quello che mi faceva sentire - per un poco - che quella era casa mia, mi rendo conto che forse non ho mai smesso di credere e di associare le persone a questo sentimento di appartenenza, che - essendo le persone mutevoli - mi fa sentire sempre di non appartenere a nessuno, né luoghi, né persone. Pretendendo sempre - io stessa - di non essere mai scoperta. Perché è questo il fondo del non-appartenere: non-concedersi, non-lasciare che altri sappiano di noi quello che noi non vogliamo sapere su noi stessi. Ma è una tautologia. Non so come si faccia a guarire. Non c'è luce nella mia camera e per la prima volta vorrei un abbraccio e andarmene a dormire senza troppe questioni. Dare una voce alle mie domande. Comincio di fretta ad incidere e sporco tutto di pittura. Penso a poche cose, alcune importanti. Mi racconto una storia finta tratta da una storia vera, e ne faccio un disegno che butto nella spazzatura.
***
Lei di lui non conosceva nulla, se non delle abitudini nulle: un thè caldo di prima mattina seguito da un caffè; un telegiornale in lingua straniera in sottofondo; il rumore del microonde che scalda un cornetto. Queste cose le bastavano per sentire di conoscerlo. Ma lei di lui non sapeva nulla, neanche quando imparò che il thè era matè e che la macchinetta del caffè aveva bisogno di essere accesa almeno dieci minuti prima. Questo lo aveva imparato perché si era trovata a far parte di quel quadro qualche volta, ma era una cosa che aveva subito dimenticato, già alla volta dopo. «Com'è che si fa?» gli aveva chiesto dalla cucina mentre lui era ancora di là nel letto. «Si deve accendere una lucina rossa» aveva risposto lui in dormiveglia. Si era poi alzato, quella volta, e le aveva stampato un bacio sulla fronte prima di cominciare la giornata, un altro bacio lento sulle labbra e poi una carezza. Fuori le montagne sembravano dipinte e il mondo sembrava al suo posto. Lei immaginava il punto esatto in cui la pietra s'incontra con il cielo e lo pensava tangibile, vicino. Di fianco, lui era seduto alla sua scrivania come tutti i giorni: concentrato e attento, mai disteso completamente. Tutto le sembrava possibile in quella bolla, perfino che quella fosse quotidianità. Ma le bastava guardare il pavimento per accorgersi della sua valigia disfatta a terra e di tutte le cose non-sue delle quali era circondata per sentirsi immediatamente estranea. Eppure, un pochino sentiva quello spazio esserle amico. Lei, però, di lui non conosceva nulla. E ancora di più se ne rese conto quando imparò le sue abitudini, quando aggiunse ai buoni riti mattutini quelli che gli erano propri: una gamba che si muove sempre nervosamente, qualche sigaretta durante la giornata, la passeggiata del pomeriggio. Aveva quasi memorizzato i suoi orari, e aveva imparato a riconoscere i suoi malumori da prima mattina. «C'è qualcosa che non va, oggi?» gli chiedeva lei, e lui le rispondeva che no, era solo nervoso come sempre. Ma lei aveva imparato a farsi una ragione dei silenzi degli altri e anche lui sembrava esserle simile in questo. E lei, di lui, continuava a non sapere nulla. Ma i loro corpi si toccavano, insieme si abitavano e le notti erano occupate di dubbi e di paure, nei loro bui incolmabili e difesi, senza mai capire la linea sottile che fa diventare il sesso amore. Sembrava quasi che un qualche vortice temporale li risucchiasse quand'erano insieme, che il mondo fuori non esistesse. Che le anime, ammessa la loro esistenza, si stessero sussurrando dov'erano state fino ad allora. Ma lei di lui continuava a non sapere niente. Era ferma sulla porta del suo buio senza decidersi di entrare. «Resta» le aveva detto un giorno, «ma senza che debba prendermi cura di te». Per questa ragione lei di lui non sapeva nulla.
di Valentina Salierno