Genealogia dei sentimenti - La distanza

15.03.2021

Poi caramente mi prese per mano

(Inferno, XXXI, 28)


Una cosa che affascina dell'essere poeta è che l'essenza della realtà è alterata. Mi spiego. Un normale paesaggio, che ora scorre lento sotto gli occhi in un giorno di un marzo freddo e stranamente soleggiato, su di un treno che porta altrove il mio cuore pesante, non mi sembra essere un qualcosa di ordinario. Che io sia un poeta? Avanza timido un pensiero presuntuoso che muore lì.

«Alla follia, non badate, datemi retta! / Pensate piuttosto ai nuovi ritmi in cui/ immergere la vostra vita perduta dietro/ l'apparenza delle cose» (Dario Bellezza, da Fuori di me)

I campi che vedo passare veloci non sono che campi. Quegli alberi sono alberi, ne avverto le forme farsi strada fra il grano. No, non sono un poeta, ma ci son voci che dentro di me abitano e che a volte si confondono con la mia. Me ne accorgo mentre tutto questo scorre all'impazzata e io penso a dei versi di Alda Merini, di una raccolta chiamata Un'anima indocile (1996):

«(...) colui che con un'assurda Lambretta ci ha attraversato la strada travolgendo due anime che salivano la collina per guardarsi in viso o per non ritrovarsi mai più».

Non capisco bene il perché di questa immagine nella mia mente, mentre il treno taglia la terra e tutto sembra calmo, dentro e fuori. Piombano in testa, questi versi, al suono destro di un treno sull'altro binario. Sorrido alla ragazza di fronte che si è svegliata di soprassalto. Sorridiamo entrambe della paura provata. Per qualche inspiegabile ragione faccio di quest'esperienza comune un modo per sentirmi legata ad un altro essere umano. Il cattivo della favola - penso - che irrompe nella storia per rimescolare le carte, per me rassomiglia a quel treno piombato sul finestrino opposto nel bel mezzo della mia tranquillità. Ma mentre di questa paura me ne faccio una ragione, ecco che un sentiero che guardo lontano scorrermi veloce sotto gli occhi, mi fa immaginare una carovana per le terre dell'Orcia e, inavvertitamente, ritrovo quelle figure esili camminare lontano sotto il monito agostiniano: «Ascolta tu pure: è il verbo stesso che ti grida di tornare» (Sant'Agostino, Confessioni). Macinare la distanza che dall'una all'altra tiene lontani quei io dalla loro terra, che un poeta come Luzi ha saputo intrecciare alla malinconia - sempre invadente - della natura. E mentre queste immagini si muovono nitide e la mia mente recita dei versi senza accorgersene (proprio mentre cerco di azzerare le distanze correndo verso un'altra città non-mia), penso che molta della lirica che ho assorbito ruoti intorno a questa continua separazione fra l'essere e ciò che ama, in un continuo andare e rivenire di pensieri, dubbi, paure, che mai si risolvono quando si è vicino a ciò che si è desiderato per tanto:

«I tuoi occhi/ saranno una vana parola, / un grido taciuto, un silenzio».

Mi ricorda l'amico Pavese, il mio poeta amato, in una di quelle poesie che difficilmente si possono scollare dal cuore. E ancora mi dice, cullato da una danza sui binari, come si dice a chi si ama:

«(...) per un istante accanto a te ho rivissuto la fiamma/ che mi accendeva negli anni più belli:/ povera fiamma che sta per spegnersi, / che, come te, è una mia illusione/ di cui non sono degno:/ pure m'ha riacceso e sorrido» (Prima di «Lavorare stanca», 1923-1930).

Per questo mi affanno, se son fatta di quelle voci. Alzo gli occhi e il sole quasi mi acceca: distanza dai posti, dalle persone, da noi stessi. Il problema delle parole. Il problema di chi vive le distanze e se ne fa una ragione.

        Delle distanze, che è un argomento ormai già a lungo trattato, sono piene le pagine di tutti i libri; che altra lettura dare della distanza? Se il mio proposito è quello di ragionare sullo spazio, sui tempi, - che sono ormai così cambiati - non c'è in questo mio sforzo alcuna pretesa di dare un contribuito su questo tema nella poesia novecentesca. Mi rendo conto, mentre ora una casa che non mi appartiene mi fa da tetto da una manciata di giorni, che la distanza, come qualsiasi altro sentimento (è bene definire uno stato come un sentimento?) mi pare essere insegnata fin da bambini e, proprio per questa sua componente "didattica", la ritengo un prodotto culturale: ci insegnano i sentimenti così come ci viene insegnato a leggere. Impariamo che la distanza non ostacola, che si possono macinare chilometri, impariamo a sopportarla come un grande peso sulle spalle che ci spinge a tentoni verso un traguardo. Impariamo, forse quando siamo più adulti, a darle un senso normativo, a ritenerla una condizione imprescindibile per realizzarsi (il realizzarsi personalmente comporta sempre un andare via, per quel che mi riguarda) e impariamo a stringere i denti e a far finta che tutto il mondo sia tondo, che - prima o poi - per una qualche conciliazione dei pianeti ci si rincontra ancora con quelle parti mancanti che un giorno abbiamo dovuto lasciare. Impariamo a voler bene a distanza. Forse, mi ripeto, questa "condizione di accettazione" e del ben sopportare uno stato che ad altri lacera il cuore, dipende dall'essere stati abituati - sin da bambini - ad essere distante dalle persone amate. E penso questo mentre di nuovo un treno mi porta via da una casa per arrivare in un'altra e in questo stato di non-appartenenza in cui parti di me sono sparse nel mondo, sento una forte nostalgia legata alla mancanza di tutti i posti che non posso vivere e in cui vorrei essere.

Ma la distanza disunisce quello che per sua natura potrebbe essere incollato, o comunque vissuto. Nella poesia, ho ragione di credere, il sentimento della distanza è vissuto in maniera duplice: c'è la distanza dal soggetto amato e la distanza fra l'io e il mondo, che molto spesso porta il nome di un paesino o di un luogo in cui siamo stati " " felici " ". Che io possa parlare dell'uno o dell'altro, è difficile sradicare quella malsana consapevolezza che entrambe queste distanze - pesanti, chiare - siano frutto di una distanza maggiore, quella fra noi e la nostra anima, che quasi niente ha a che fare con le cose materiali di cui siamo circondati. E se amiamo qualcun* o qualcosa, l* amiam* perché sembra farci avvicinare a quella infinitesima distanza che non riusciamo ad azzerare perché in balia di quel vento forte che non si placa. E forse amiamo perché sembra che rimetta a posto i nostri pezzi mancanti. Allora, a questo proposito, per quel tempo passato che mi ha portato ad amare dei personaggi esistiti ma inventati (che magia la letteratura!), penso a quel Martini del Luzi e alla sua Giovanna: è infatti attraverso la moglie che il senese guarda il mondo e cerca di viverlo; è come se gli occhi della donna fossero lo specchio di quelli del marito e questo accade in maniera profonda, quasi trascendente: all'interno dell'esperienza di Giovanna, Simone riesce a leggere delle divine corrispondenze, per cui la donna diventa un punto di comunione con il mistero del mondo, il bene, la fede nell'aldilà e in qualcosa che elude dalla dimensione reale; allora il Martini-Luzi continua a chiedersi: «che cosa rispecchiavano del mondo:/ il mutare o il permanere,/ l'effimero o il durevole/ quelle lucenti spere?». Ma ancora quella distanza da sé stesso, che attraverso la donna sembra affievolirsi e renderla - per lo meno - piacevole, torna a ribadirgli più volte che tutt'intorno c'è il buio e che, la distanza fra lui e la sua anima, gli farà per sempre percepire un mondo altro, diverso, duplice. Anche se amato.

Ma allora a che serve voler bene? Cercare di eliminare le distanze fisiche quando ne abbiamo ancora con noi stessi? A che serve cercare nell'altro del bene, se siamo consapevoli che non è solo la distanza fisica quella a tenerci distanti?

«Io quando amavo desideravo non te ma le più dolci ironie d'una/ vera semenza. Ecco è chiuso il cerchio separato da il tuo/ volenterosa correvo a cercarti. / Veramente non sapevo/ chi ti voleva» (Amelia Rosselli, da Le poesie)

Ci penso mentre sono a tavola con i miei coinquilini e mastichiamo i ricordi delle storie passate. Sempre di più comincio a pensare che siamo un mosaico di persone che ci hanno vissuto, amato, fatto del male. Le penso tutte e le passo in rassegna. Brindo a loro che m'hanno cambiata. Ridiamo delle cose che ci hanno fatto del male. Beviamo un po' su quello che non sappiamo come andrà a finire. Mi si affollano versi nella mente di una poesia di una poeta milanese, mentre aiuto quelle storie ad immagazzinarsi in quel posto che custodirà la mia esperienza di queste persone:

(a posteriori riporto il testo)

«Non lasciate che si isoli così/ parla con il basilico che è dentro il vaso/ e con i pesci che muovono la coda/ e con il gatto che dorme sul cuscino/ e coi pidocchi verde tenero delle rose/ e coi ragnetti appena appena nati/ e con Brigante che sarebbe un cane/ vive in povertà e non le dispiace/ ma/ non lasciate che si isoli così/ ieri ha avuto visite e sbagliava i verbi/ anche l'uomo le interessa molto». (Vivian Lamarque, Quasi San Francesco, da Poesie (1972-2002))

Non lasciate si isoli così, ripetevo. Forse consapevole delle assenze e delle distanze, che a suon di versi malconci che scrivo su questi che mi abitano ormai da anni, cerco di ricucire alle assenze di chi mi manca. Consapevole di non poter essere un palliativo per nessuna distanza, né per me, né per nessun altro. Allora viaggio nella speranza che voler bene sia altro rispetto al pretendere che qualcun altro ci riempia e colmi quelle voragini che ci allontano dal capirci completamente. Altro rispetto al pretendere che qualcuno faccia pace - per noi - con quelle parti di noi stessi che non comprendiamo e dalle quali ci allontaniamo. Mi interrompe uno di loro mentre io continuo in questo flusso di pensieri quasi piacevole. Mi dice che la sua spiegazione al voler comunque bene è in una poesia di un poeta cileno. Legge i primi versi e la riconosco. La recito a memoria in italiano mentre la legge in spagnolo:

«No te amo come si fueras rosa de sal, topacio (Non t'amo come se fossi rosa di sale, topazio)/

O flecha de claveles que propagn el fuego: (o freccia di garofani che propagano il fuoco:)/

te amo come se aman ciertas cosa oscuras, (t'amo come si amano certe cose oscure,)/

secretamente, entre la sombra y el alma (segretamente, fra ombra e anima)»

(Pablo Neruda)

Silenzio fra tutti noi. Ho cominciato a scrivere questo articolo una settimana fa, con la quasi idea di riuscire a fare un'analisi sulle distanze che sento nei versi che mi abitano. È finita con una bandiera bianca ai miei pensieri di disappartenenza, nella certezza che ognuno di noi si sente distante da un sé stesso del passato e contemporaneamente lontano da un qualcosa o da un qualcuno che ha a cuore. Eppure, senza sapere che cosa ci rende stupidi e fragili, continuiamo a prendere treni, aerei, macchine, per far pace - almeno per un po' - con quelle distanze umane.

secretamente, entre la sombra y el alma.




di Valentina Salierno

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