Elio Vittorini: la poesia nel romanzo
Elio Vittorini: la poesia nel romanzo
La scrittura di Vittorini è una scrittura controversa, così come diverso fu il suo essere scrittore. Una scrittura semplice, musicale, apparentemente fatta di frasi brevi una dopo l'altra e separate soltanto dai punti: una scrittura semplice e facilmente ripetibile: sembrerebbe. Quello che si rimproverava infatti allo scrittore siracusano, era questo suo scrivere in maniera povera, ripetitiva; gli si accusò - addirittura - una scrittura manierista. Ma di manierista aveva ben poco Vittorini, che invece ricercava musicalità più che logica, ritmo più che discorsività. Gli si accusò, inoltre, di aver voluto essere molte più altre cose che scrittore, ma c'è da dire che, asserendo a questa affermazione, bisognerebbe allora fare i conti con il panorama con il quale si misurò e con le sue prove di scrittura.
Nelle prime esperienze letterarie (e parliamo di primi tentativi di scrittura come Erica e i fratelli, oppure Viaggio in Sardegna), questi cerca di divincolarsi da quelli che sono i limiti stessi della narrazione, ovvero quel continuo riflettersi di "pensò" e "sentì", intrappolati nella fitta rete della narrazione in cui i personaggi vengono delineati anche (e soprattutto) attraverso il raccontare - spesso personale - del narratore. Nella prefazione del Garofano Rosso, Vittorini cerca di teorizzare una nuova rinascita di genere: vuole ridare al romanzo la sua genuinità, liberarlo da quello che è il romanzo Ottocentesco. La sua capacità - non propria di tutti gli scrittori e non scontata - fu quella di riuscire a catapultare il lettore nella narrazione, a "farlo sedere a tavolino" con i personaggi; Vittorini riempie tutto di una propria carica emotiva che è, prima di tutto, rappresentazione del suo modo di vedere la realtà. Conversazione in Sicilia fu, in questo senso, qualcosa di completamente diverso da quello che la cultura e il panorama letterario italiano del tempo si aspettava; venne, infatti, molto criticato e gli venne imputato di aver scritto qualcosa fin troppo vicino alla letteratura Americana che, come lo stesso Vittorini ricorda, gli fu effettivamente di aiuto: più che nella scrittura, nel modo di percepire la realtà e nel modo in cui gli scrittori americani assecondavano il flusso della vita. Gli americani, infatti (e più in particolare Hemingway), furono per Vittorini una scuola. Questi cominciò, una volta arrivato a Firenze, a imparare l'inglese grazie all'amicizia di un operaio che era stato all'estero, con il quale traduceva il Robinson Crusoe e, da allora, la traduzione divenne una delle necessità della sua scrittura. Vittorini-traduttore è in realtà un Vittorini-scrittore: sì traduceva le opere degli scrittori, ma le riscriveva con il suo linguaggio. All'esordio di Conversazione, salutato quindi con aspre critiche rivolte al suo "essere troppo diverso" dai romanzi di stampo ottocenteschi, Vittorini ricorderà come la scrittura degli Americani avesse ormai condizionato la sua scrittura e come l'elaborazione di quei modelli - attraverso la riscrittura nel proprio stile - avessero portato ad una materia in continua evoluzione. Vittorini vuole svincolare la prosa dalla discorsività, da tutti gli elementi prosaici e dalla logica; ecco che quindi la sua scrittura si concentra su frasi paratattiche, sinestesia, musicalità. La scrittura è spoglia di quella retorica propria dei romanzi, della narrazione pesante e prolissa e si libera, invece, verso una scrittura in cui vigono solamente musicalità e ritmo. È una scrittura che si nutre di "non detto" (ricordiamo la madre di Conversazione con i suoi "non lo so" o quel "ehm..." che risuona ancora forte come un eco); Vittorini non ha bisogno di spiegare, perché sa benissimo che la verità delle cose non è possibile da raggiungere e perciò lascia sospeso il lettore in una fitta nebbia di domande e di perché. Questo suo ricorrere a frasi semplici, al dialogo più che alla narrazione, fanno della scrittura uno strumento puro e immediato, facilmente riconducibile a quello che effettivamente è la realtà, senza alcuna retorica. I perché sospesi sono i perché della letteratura, i perché che sorgono solo grazie a domande, a personaggi che risolvono altri personaggi, trovando, come in un labirinto, la via d'uscita andando a tentoni. Scrittura che diventa poesia romanzata e letteratura che diventa luogo di libertà e di sperimentazione. Sembra quasi possibile accomunare questa personalità a quella di Ungaretti e al suo porto sepolto, a quella forma di poesia che nulla dice, ma tutto conserva in sé. Lo stesso Ungaretti si sforzò nelle sue ricerche e scoperte di poesia, per insegnare che ogni poeta ha da svincolare la propria originalità liberamente, pur ricordando sempre che poesia è tale solo se riesce a nutrirsi di quei caratteri che le impediranno sempre di essere estranea all'uomo. Poesia è poesia se parla agli uomini. Questo è quello che ricerca Vittorini: una scrittura che sappia suscitare domande e che non parli solo al Silvestro di Conversazione, o solo al Vittorini scrittore, ma che parli a tutti. Una scrittura e una letteratura che ci faccia rendere conto che tutti noi, nessuno escluso, facciamo parte del genere umano offeso. Nella prefazione al Garofano Rosso, Vittorini scriverà una cosa importante sul modo che questi ha di intendere di fare scrittura:
"E' in ogni uomo attendersi che forse la parola, una parola, possa trasformare la sostanza di una cosa. Ed è nello scrittore crederlo con assiduità e fermezza".
Credere, quindi, che la letteratura possa scuotere gli animi, che possa riportarci ad una dimensione di coscienza in cui "quei trecentosessatacinque topi" che tutti ci abitano per via della speranza tramutata in quiete, si smuovano al suono di un piffero e ci portino a essere uomini.
di Valentina Salierno
(Testi utilizzati: Elio Vittorini - scrittura e Utopia di Edoardo Esposito)