Caro Michele in maggio

13.05.2020

Caro Michele 


Mi sono arrivati i conigli. Quattro, sono. Ho chiamato un falegname a farmi le gabbie. Lo sapevo che non potevo aspettarmi da te questo piccolo favore. Capisco che forse non ne hai colpa. Ma le cose girano sempre in modo che io debba rinunciare a ricevere qualsiasi piccolo favore da te.

Tua madre (p.27)


E' un qualsiasi giorno di maggio di un annus horribilis. Sono seduta fuori, all'aperto, e quasi sembra un miracolo poter godere - dopo così tanto - di un po' di sole; io che ho sempre amato la neve e il freddo penetrante nelle ossa. Oggi questo sole mi sembra la cosa più bella che abbia e ne faccio tesoro per tutte le volte che l'ho dimenticato. Dentro, nella casa di famiglia, sento risuonare le voci dei miei genitori. Li vedo discutere in penombra, perché la retina della porta che ci divide non mi permette di vedere dentro. Meglio così, mi dico. La voce di mia sorella rimbomba nella stanza e io penso che erano esattamente quasi cinque mesi che non condividevo lo stesso tetto con la mia famiglia al completo. Questa volta è diverso, ci sono distanze da mantenere, abbracci da evitare. Ma per un attimo, quella quotidianità alla quale sono stata sempre abituata e che sempre ho fuggito, mi sembra essere tornata al suo antico ordine.  Sono seduta su una panchina di legno che ha costruito mia madre e che ha reso più comoda con dei cuscini cuciti l'uno con l'altro. Sopra questa strana copertura, c'è qualcosa che mi appartiene: un centrotavola fatto all'uncinetto comprato alla montagnola due anni fa. Questo centrotavola colorato mi riporta indietro nel tempo, a quando era poggiato sul cassettone della mia casa in via delle Lame ed era ricoperto di libri perché non avevo una libreria. All'improvviso tutto quello che mi resta di quei momenti è proprio questo pezzo di stoffa e istintivamente ci poggio il viso e cerco di capire se c'è ancora qualcosa che mi appartiene fra le sue trame, che sia anche un po' di polvere di quella casa che una volta ho abitato.


"Caro Osvaldo (...), nel mio scantinato, credo in fondo a un cassetto del comò, c'è una sciarpa. È una bellissima sciarpa, di vero cachemire, bianca a strisce celesti. Me l'aveva regalata mio padre. Vorrei che tu andassi a cercarla e la portassi. Sarei contento di sapere che hai al collo quella sciarpa, quando cammini per il lungotevere, uscendo dal tuo botteghino. Non ho dimenticato le nostre lunghe passeggiate sul lungotevere, avanti e indietro, col sole che tramontava. 

Michele "

(pag. 91)


"Caro Michele,

la sciarpa di cachemire è introvabile. Io però mi sono comperato una sciarpa, credo non di cachemire, e senza strisce azzurre, una semplice sciarpetta bianca. La porto e mi immagino che sia la tua. Mi rendo conto che è un surrogato. Ma d'altronde noi tutti viviamo di surrogati. (...)

Osvaldo"

(pag. 92)


Nella mia testa risuona la scena di questo libro di Natalia Ginzburg, Caro Michele (1973). Queste due missive fra due amici, brevi, concise. La volontà di Michele di essere ricordato dall'amico in questo modo: una sciarpa lasciata in una casa appartenuta per poco. Penso a tutte le lettere che ho imbucato in questo periodo così simili a questa sciarpa di Michele. 

Il vento sospira, il mare sarà calmo. La vita sembra essere tornata alla sua vecchia e antica regolarità. Il mio telefono riproduce voci meccaniche che non lo abitavano da anni e perfino la mia cerchia di amici sembra essere ritornata quella di tre anni fa, quando la mia vita orbitava in questa cittadella sospesa sul mare. Un anno fa, di questo periodo, leggevo un libro di una poetessa russa, Cvetaeva, chiamato Sonecka. Sonecka era la sua migliore amica: una ragazza bruna, ballerina, sempre desiderata da tutti. La Cvetaeva scrive quando scopre che la ragazza è morta, dopo anni e anni passate separate, senza mai - però - distruggere l'affetto provato, seppure mai confessato nel tempo distanti. Le due non si parlavano più, eppure la Cvetaeva avrebbe giurato di averla amata, di aver amato anche Volodja, ormai andato via ( (...) ma ora bisognava uscire, lentamente a ritroso, livellando poi con i piedi la nuda terra/ Sonecka) e di aver amato nella maniera più profonda e possibile quel suo spazio di vita che fra teatro, versi e poesia aveva ritagliato nel suo inverno russo. Rapporti umani vitali che si disgregano. Rapporti che avevano cambiato modo di vita e di pensare e che hanno dimostrato la loro fragilità. Sottoposti al tempo, alle pressioni, alle menti tormentate dalla paura di non essere abbastanza, i rapporti viscerali sbiadiscono e di loro non resta che cenere, macerie di una città distrutta dalla guerra. L'architettura del dopoguerra e la grande politica rinnovatrice da questa discendente, ci insegna che le città rifiorirono dopo le grandi catastrofi: nuovi palazzi ricalcati sullo stile degli antichi, nuovi quartieri e monumenti da riempire di fiori. Ma i rapporti umani non sono dei palazzi e spesso non basta riempire il vuoto delle assenze ricalcando vecchi profili e cercando - a tentoni - un modo per riportare a galla il passato. Questo ce l'ha insegnato prima la vita, poi l'abbiamo trovato scritto nei libri, come un eco ridondante. Ma quando leggevo la Cvetaeva qualcosa poteva portarmi alla speranza: la certezza che, come dice Pessoa, si possa fare della caduta un passo di danza e si possa respirare a pieni polmoni l'aria gelida del mattino, mentre su di una bicicletta in corsa si recitano parole di amore, di pace. La certezza che, quindi, per quanto gli eventi della vita ci possano mettere davanti la fragilità dei rapporti umani, qualcosa è sempre recuperabile e possibile, perché possibile è raggiungere, dimostrare, cucire con pazienza. E seppure la vicenda di Sonecka ha lasciato in me dei richiami profondi, tanto da portare questo libro in giro per la Provenza, Caro Michele sembra aver scucito - uno ad uno, due a due - i punti messi su una ferita che non curavo da anni. Per quanto continuerò a non farlo?

Michele non torna mai a casa. La madre si chiede il perché, rassegnata alla mania del figlio di cercare continuamente degli altrove (Cara mamma, per motivi che non mi sarebbe facile spiegare per lettera, ho rinunciato a venire a Roma, dopo qualche attimo di indecisione; p.37). Fra le lettere di Angelica, la sorella di Michele, la madre e Michele stesso, si traccia il profilo di questa famiglia che tanto atipica non è. Dietro al libro leggo il commento di Cesare Garboli: "le vite che s'intrecciano in questo romanzo sono fatte di passi sbagliati. Ma a nessuno di questi sbagli si sarebbe potuta opporre una scelta giusta e nessuno di questi passi avrebbe potuto essere indirizzato verso un traguardo migliore". Penso ai passi falsi che ogni giorno ci troviamo a fare sospesi su di una corda, in equilibrio per non cadere, precipitare e distruggere qualcosa. Ai passi che non facciamo - invece - per non ferire chi abbiamo accanto. Alcuni rapporti sono fatti di non-rischio, di accettazione: "mi sembra sommamente strano di vederti passare per strada e non chiamarti. Ma in verità non avremmo nulla di speciale da dire. A me è indifferente quello che ti succede e certo a te sarà indifferente quello che succede a me. Quello che succede a te mi è indifferente perché sono infelice. Quello che succede a me, ti è indifferente perché sei felice. Comunque tu e io oggi siamo due estranei" (p.146). Quest'immagine me l'aveva regalata anche la Cvetaeva, ormai rassegnata per la partenza di Volodja e per la fine delle loro conversazioni notturne, della malinconia insieme condivisa più che la gioia scambiata. Ma mentre la poetessa tacita accetta quella distanza, consapevole della fragilità dei rapporti umani e dei continui gioco-forza fra amore e odio, ci lascia assaporare dell'assenza solo l'amaro di un cuore che sanguina, mentre la Ginzburg ci mette davanti il lato oscuro dell'amore e lo fa in maniera spietata: due persone che non hanno più niente di speciale da dirsi e che, ad un tratto, sono estranei. Uscire lentamente a ritroso, ci aveva detto di Volodja la Cvetaeva. Solo parole ci lascerà la Ginzburg. Michele se ne infischia dei racconti che la madre gli accenna. Se ne infischia perché la distanza che li separa è così grande da non riuscire a interessarsene, perché non vuole costruire palazzi nuovi sulle sue vecchie rovine. Ho tanto immaginato e sentito quest'uomo vicino a me. Vicino ai sentimenti accartocciati sotto al letto in questi mesi, in cui anch'io , come Michele, sarei voluta andare via e non fare più ritorno. Farlo per seguire un ideale? O farlo perché non ci si vuole sentire legati? e, prima di tutto, quand'è che l'esigenza di staccarsi è diventata così forte? 

Questa madre che cerca il figlio sembra ricordarmi la mia: Così i boschi io li guardo dalle finestre e mi sembrano dei luoghi remoti. Forse per camminare nella campagna bisogna essere tranquilli, piuttosto contenti, e così io mi auguro e spero che tu sia (pag. 70). Figli, entrambi, della stessa madre apprensiva che ha bisogno di ripeterci  "(...) che non ho capito dove e come tu desideri vivere" (pag. 75), e forse andiamo lontano perché il troppo amore rischia di far appassire tutti i buoni propositi che su letti estranei affiliamo (ci sono dei periodi in cui si sta bene con gli sconosciuti/ p.120). Così Michele manda lettere e scrive per soldi, favori, per raccontare qualche novità di poco conto e inviare indirizzi che però non sono quelli in cui realmente si trova, perché - avere un posto fisso, dare traccia di un sé - vuol dire anche sapere che altri possono venire a trovarci. E forse tutto quello che desidera Michele è non avere famiglia, radici, qualcuno da cui tornare: quando alla nostalgia viene a mescolarsi la repulsione, succede allora che i luoghi e le persone che amiamo li vediamo situati in una grande lontananza e le strade che pratichiamo per raggiungerli ci sembrano rotte e impraticabili (p. 116); e così risponde Angelica: gli occhi delle persone che ci amano possono essere, nel giudicarci, estremamente limpidi, misericordiosi e severi, e può essere dura, in definitiva salutare e benefico per noi affrontare la chiarezza, la severità e la misericordia (p.118). In Lessico famigliare (1963) la Ginzburg ci aveva portato nella sua vita, nella sua casa, fra il frastuono della voce del padre e la dolcezza della madre, donna per la quale comunque provava amore e odio. Ci aveva messo di fronte alle fratture della casa, di un tetto scoperchiato, perché non c'è casa se tutti si sentono di partire, di andare sempre più lontano ( qualche volta ho nostalgia di voi, cioè di quelli che uso chiamare "i miei", anche se non siete per niente miei, come io non sono per niente vostro/ p.116). Casa non è più quella di Pavese nella luna e i falò (1950), dove ci diceva: Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c'è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti. Qui non c'è memoria: mai un accenno di ricordo in Michele, mentre la madre rievoca momenti lontani, quasi per far rinascere dell'amore nel figlio. Ma nel deserto i fiori sono rari a sbocciare. 

"(...)

O magari un ragazzo scappato di casa

torna proprio quest'oggi, che sale la nebbia 

sopra il fiume, e dimentica tutta la vita, 

le miserie, la fame e le fedi tradite,

per fermarsi su un angolo, bevendo il mattino.

Val la pena tornare, magari diverso. "

Scrive Pavese, in "Paesaggio", 1935. Questo ragazzo scappato di casa che ci riporta alla memoria le volte in cui ci siamo sentiti liberi nel farlo, capaci di dimenticare tutta la vita per poi fare ritorno - magari diversi - non sarà Michele. 

Prima che mia sorella arrivasse, ho visto mia madre affacciarsi al balcone e aspettare la macchina raggiungere il portone. Il mio pensiero è tornato indietro a quando mio nonno ci aspettava davanti alla porta all'arrivo e fuori al cancello alla partenza, con la sua mano agitata in segno di addio. Io lo guardavo profondamente fino a quando si perdeva fra gli alberi e non potevo più riconoscerlo. Ancora oggi non possiamo andare via senza che ci guardi da lontano e agiti la sua mano fino a quando la macchina scompare. Il mio pensiero è volato a Michele, che posso capire più di chiunque altro e a questi genitori che non smetteranno mai di aspettare i figli dalla finestra e sempre agiteranno le braccia per dare il bentornato, anche se sempre - loro lo sanno - scapperemo via.

"(...) penso ora che quello era un giorno felice. Ma purtroppo è raro riconoscere i momenti felici mentre li stiamo vivendo. Noi li riconosciamo, di solito, solo a distanza di tempo. (...) però adesso mi ricorderei quel giorno non come un vago giorno felice ma come un giorno veritiero e essenziale per me e per te, destinato a illuminare la tua e la mia persona, che sempre si sono scambiate parole di natura deteriore, non mai parole chiare e necessarie ma invece parole grigie, bonarie, fluttuanti e inutili.

Ti abbraccio

Tua madre"

(p.126)


Caro Michele, Natalia Ginzburg, Einaudi, 2006 

Sonecka, Marina Cvetaeva, Adelfi, 2019


 Un grazie a Valeria Rando, de "Il Servizio Pubblico", con la quale condivido un amore sconfinato per quell'anima gentile della Ginzburg, per avermi regalato dei motivi per riscoprirla e fatto pensare la cara Cvetaeva illuminata da una luce diversa.


di Valentina Salierno

fonte foto: https://www.bing.com/images/search?view=detailV2&ccid=Qugn0dlF&id=8696F6BF09EAAEC37A5C56D96BB2FD6B1BDCFEC4&thid=OIP.Qugn0dlFFNugHU9SnvWj1QHaEK&mediaurl=https%3A%2F%2Fi.gr-assets.com%2Fimages%2FS%2Fcompressed.photo.goodreads.com%2Fhostedimages%2F1549364980i%2F27017210._SX540_.jpg&exph=304&expw=540&q=caro+michele+natalia+ginzburg&simid=608008085685079017&selectedindex=43&ajaxhist=0&vt=0&sim=11

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